Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò
Abramo, pensano i Saggi, era un eroe religioso più grande di Noè. Lo sappiamo dalla famosa disputa tra i Maestri sulla frase secondo cui Noè era “perfetto nella sua generazione”, intendendo relativo alla sua generazione:
“Nella sua generazione” – Alcuni dei nostri Saggi lo interpretano favorevolmente: se fosse vissuto in una generazione di giusti, sarebbe stato ancora più giusto. Altri lo interpretano in modo svalutativo: in confronto alla sua generazione era giusto, ma se fosse vissuto nella generazione di Abramo, non gli avrebbero riconosciuto cosi tanta importanza.
Alcuni pensavano che se Noè fosse vissuto al tempo di Abramo sarebbe stato ispirato dal suo esempio a livelli ancora più alti; altri che sarebbe rimasto lo stesso, e quindi sarebbe stato insignificante rispetto ad Abramo. Ma nessuna delle due parti ha mai dubitato che Abramo fosse il più grande.
Allo stesso modo, i Saggi contrapponevano la frase “Noè camminò con Dio” al fatto che Abramo camminò davanti a Dio, riguardo a lui la Scrittura dice in Genesi 24:40: “[Il Signore] davanti al quale io camminavo”. Noè ebbe bisogno del sostegno [di Dio] per essere sostenuto [nella giustizia], ma Abramo si rafforzò e camminò devotamente da solo. (Rashi a Genesi 6:9)
Quali prove abbiamo nel testo stesso che Abramo fosse più grande di Noè? A dire il vero, egli discusse con Dio per protestare contro la distruzione delle città della pianura, mentre Noè si limitò ad accettare il verdetto di Dio sul Diluvio. Eppure Dio comprese la protesta di Abramo. Subito prima il testo diceva: Allora il Signore disse: “Devo nascondere ad Abramo ciò che sto per fare?” Abramo diventerà sicuramente una nazione grande e potente, e tutte le nazioni della terra saranno benedette attraverso di lui. Poiché io l’ho scelto affinché diriga i suoi figli e la sua famiglia dopo di lui a osservare la via del Signore, facendo ciò che è giusto e corretto, affinché il Signore realizzi per Abramo ciò che gli ha promesso. (Genesi 18:17-19)
Si tratta di un invito quasi esplicito a mettere in discussione la sentenza. Dio non fece una proposta del genere a Noè. L’incapacità di Noè di contraddire l’ordine ricevuto non dovrebbe essere usata contro di lui. Inoltre, la Torà sembra essere più elogiativa nei confronti di Noè che di Abramo. Ci viene detto: Noè trovò grazia agli occhi del Signore. (Genesi 6:8)
Per due volte Noè è descritto come un uomo giusto, uno tzaddik:
1) Noè era un uomo giusto, irreprensibile tra la gente del suo tempo, e camminava con Dio (Genesi 6:9).
2) Il Signore poi disse a Noè: «Entra nell’arca, tu e tutta la tua famiglia, perché ti ho trovato giusto in questa generazione» (Genesi 7:1).
Nessun altro in tutta Tanach è chiamato giusto. In che senso allora Abramo era più grande di Noè? Una risposta, profonda, è suggerita dal modo in cui i due uomini hanno reagito alla tragedia e al dolore. Dopo il Diluvio leggiamo questo su Noè:
Noè cominciò a essere un uomo della terra e piantò una vigna. Bevve un po’ del vino, ubriacandosi, e si scoprì nella tenda. (Genesi 9:20-21) Si tratta di un calo straordinario. L’“uomo giusto” è diventato un “uomo della terra”. L’uomo che doveva “portarci conforto” (Genesi 5:29) ora cerca conforto nel vino. Cos’era successo?
La risposta, sicuramente, è che Noè era davvero un uomo giusto, ma anche uno che aveva visto un mondo distrutto. Abbiamo l’impressione di scorgere un uomo paralizzato dal dolore, che cerca l’oblio. Come la moglie di Lot che si voltò indietro per osservare la distruzione, Noè scopre di non poter andare avanti. È desolato, addolorato. Il suo cuore è spezzato. Il peso del passato gli impedisce di volgersi verso il futuro.
Ora pensa ad Abramo all’inizio della parashà di questa settimana. Aveva appena attraversato la prova più grande della sua vita. Dio gli aveva chiesto di sacrificare il figlio che aveva aspettato per tanti anni. Stava per perdere la cosa più preziosa di tutta la sua esistenza. È difficile immaginare il suo stato d’animo durante lo svolgimento del processo.
E mentre stava per sollevare il coltello, si udì una voce dal cielo che gli diceva “fermati”, e la storia sembra aver avuto, dopo tutto, un lieto fine. Ma lo attendeva una terribile svolta degli eventi. Mentre Abramo stava tornando a casa, sollevato dal fatto che la vita di suo figlio fosse stata risparmiata, ecco una nuova una vittima del suo calvario. Subito dopo, all’inizio della parashà di questa settimana, apprendiamo della morte di Sara. E i Maestri suggerirono che i due eventi fossero simultanei. Come spiega Rashi: “La storia della morte di Sara segue immediatamente quella del sacrificio di Yitzchak. Quando seppe che suo figlio era stato legato sull’altare, pronto per essere immolato, e che era stato quasi sacrificato, ebbe un grande shock e morì. Diremmo oggi che ha avuto un infarto dopo aver appreso la notizia.
Ora prova a metterti nei panni di Abramo. Stava per sacrificare il figlio ed ora, come conseguenza indiretta, questa notizia causò la morte della moglie con la quale era sposato da diversi anni; la donna che lo accompagnò nelle sue avventure e difficoltà, che gli salvò la vita due volte e che ebbe la gioia di dare alla luce Isacco in età avanzata. Se Abramo avesse pianto per il resto della sua vita, sicuramente lo avremmo capito, proprio come comprendiamo il dolore di Noè.
Ora leggiamo quanto segue: E Sara morì a Kiryat Arba, cioè Hebron nel paese di Canaan, e Abramo venne a fare esequie a Sara e a piangere per lei, poi Abramo risorse dalla sua morte. (Genesi 23:2-3)
Abramo si addolora e piange, poi si rialza e fa due cose per garantire il futuro ebraico, due atti i cui effetti li sentiamo ancora oggi. Acquista il primo appezzamento in Terra d’Israele, un campo nella Grotta di Machpela. E poi assicura una moglie a suo figlio Isacco, così che ci siano nipoti ebrei e continuità ebraica. Noah è addolorato ed è sopraffatto dalla sua perdita. Abramo è addolorato sapendo cosa ha perso, ma poi si risolleva e costruisce il futuro ebraico. C’è un limite al dolore. Questo è ciò che Abramo sa e Noè no.
Abramo ha concesso questo dono singolare ai suoi discendenti. Il popolo ebraico subì tragedie che avrebbero devastato altre nazioni oltre ogni speranza di ripresa. La distruzione del primo Tempio e l’esilio babilonese. La distruzione del secondo Tempio e la fine della sovranità ebraica. Le espulsioni, i massacri, le conversioni forzate e le inquisizioni del Medioevo, i pogrom dei secoli XVII e XIX e infine la Shoah. Eppure, in qualche modo, il popolo ebraico si è addolorato e ha pianto, per poi insorgere e costruire il futuro. Questa è la loro forza unica che viene da Abramo, come vediamo nella parashà di questa settimana.
Kierkegaard scrisse una frase profonda nei suoi diari: Ci vuole coraggio morale per piangere, ci vuole coraggio religioso per gioire.
Forse questa è la differenza tra Noè il Giusto e Abramo l’Uomo di Fede. Noè era addolorato, ma Avraham sapeva che alla fine il dolore avrebbe dovuto avere fine. Dobbiamo passare dalla perdita di ieri al richiamo di un domani, che dobbiamo aiutare a far nascere.
Di Rabbi Jonathan Sacks zzl