Appunti di Parashò a cura di Lidia Calò
Accanto alla santità del luogo e della persona, c’è la santità del tempo, che la parashà di Emor descrive nel suo elenco ingannevolmente semplice di feste e giorni santi (Levitico 23:1-44).
Il tempo ha un ruolo enorme nell’ebraismo. La prima cosa che Dio dichiarò sacra fu un giorno: Shabbat, al termine della creazione. La prima mitzvà data al popolo ebraico nel suo insieme, prima dell’Esodo, fu il precetto di santificare il tempo, determinando e applicando il calendario ebraico (Esodo 12:1-2). I Profeti furono le prime persone della storia a vedere Dio nella storia, considerando il tempo stesso come l’arena dell’incontro tra il Divino e l’umano. Praticamente ogni altra religione e civiltà, prima e dopo, ha identificato Dio, la realtà e la verità con l’atemporalità.
Isaiah Berlin (filosofo, politologo e diplomatico lettone naturalizzato britannico 1909-1997) era solito citare Alexander Herzen (scrittore e filosofo russo 1812-1870) che diceva degli Slavi che non avevano storia, ma solo geografia. Gli ebrei, diceva, avevano il contrario: molta storia ma troppo poca geografia. Molto tempo, ma poco spazio.
Nell’ebraismo, quindi, il tempo è un mezzo essenziale della vita spirituale. Ma c’è una caratteristica dell’approccio ebraico al tempo che ha ricevuto meno attenzione di quanto avrebbe dovuto: la dualità che attraversa l’intera struttura temporale.
Prendiamo, ad esempio, il calendario nel suo complesso. Il cristianesimo usa un calendario solare, l’Islam uno lunare. L’ebraismo li usa entrambi. Contiamo il tempo sia in base al ciclo mensile della luna sia in base al ciclo stagionale del sole.
Consideriamo poi il giorno. I giorni hanno normalmente un inizio identificabile, sia che si tratti del calar della notte o dell’alba o, come in Occidente, di una via di mezzo. Ai fini del calendario, il giorno ebraico inizia al calar della sera (“E fu sera e fu mattina, un giorno”). Ma se guardiamo alla struttura delle preghiere – quella del mattino istituita da Abramo, quella del pomeriggio da Isacco, quella della sera da Giacobbe – c’è un senso in cui il culto del giorno inizia al mattino, non la sera prima.
Anche gli anni hanno di solito un inizio fisso: il “nuovo anno”. Nell’ebraismo, secondo la Mishnah (Rosh Hashanah 1:1), ci sono ben quattro “nuovi anni”. Il primo di Ellul è il nuovo anno per la decima degli animali. Il quindici di Shvat (o, secondo il Bet Shammai, il primo di Shvat) è il nuovo anno per gli alberi. Queste sono date specifiche e secondarie, ma le altre due sono fondamentali. Secondo la Torà, il primo mese dell’anno è Nissan. Questo fu il giorno in cui la terra divenne secca dopo il Diluvio (Genesi 8:13). È il giorno in cui gli israeliti ricevettero il loro primo comando come popolo (Esodo 12:2). Un anno dopo fu il giorno in cui fu dedicato il Tabernacolo e inaugurato il servizio dei sacerdoti (Esodo 40:2). Ma la festa che noi chiamiamo Capodanno, Rosh Hashanah, cade sei mesi dopo.
Il tempo santo stesso si presenta in due forme, come chiarisce la parashà di Emor. C’è lo Shabbat e ci sono le feste, che vengono annunciate separatamente. Lo Shabbat è stato santificato da Dio all’inizio dei tempi per tutti i tempi. Le feste sono santificate dal popolo ebraico, al quale è stata data l’autorità e la responsabilità di fissare il calendario.
Da qui la differenza nelle benedizioni che pronunciamo. Nello Shabbat lodiamo Dio che “santifica lo Shabbat”. Nelle feste lodiamo Dio che santifica “Israele e i tempi santi” – il che significa che è Dio a santificare Israele, ma è Israele a santificare i tempi santi, determinando in quali giorni cadono le feste.
Anche all’interno delle feste c’è un doppio ciclo. Uno è formato dalle tre feste di pellegrinaggio: Pesach, Shavuot e Succot. Sono giorni che rappresentano i momenti storici chiave all’alba del tempo ebraico: l’Esodo, la consegna della Torà e i quarant’anni di vagabondaggio nel deserto. Sono feste della storia.
L’altro è formato dal numero sette e dal concetto di santità: il settimo giorno, lo Shabbat; il settimo mese, Tishri, con le sue tre feste di Rosh Hashanah, Yom Kippur e Succot; il settimo anno, la Shemittah; il Giubileo che segna il completamento di sette cicli settennali.
Questi tempi (con l’eccezione di Succot, che appartiene a entrambi i cicli) non hanno tanto a che fare con la storia quanto con quelle che, in mancanza di una parola migliore, potremmo chiamare metafisica e giurisprudenza, verità ultime sull’universo, sulla condizione umana e sulle leggi, sia naturali che morali, sotto le quali viviamo.
Ognuna di esse riguarda la creazione (lo Shabbat la ricorda, Rosh Hashanah ne è l’anniversario), la sovranità divina, la giustizia e il giudizio, insieme alla condizione umana di vita, morte e mortalità. Così nello Yom Kippur affrontiamo la giustizia e il giudizio. A Succot/Shemini Atzeret preghiamo per la pioggia, celebriamo la natura (riunire il lulav, l’etrog, gli hadassim e le aravoth come arba minim – le quattro specie – è l’unica mitzvà che facciamo con oggetti naturali non lavorati) e leggiamo il libro del Kohelet, la più profonda meditazione del Tanach sulla mortalità.
Nel settimo anno e nel Giubileo riconosciamo la proprietà finale di Dio sulla terra d’Israele e sui figli d’Israele. Per questo motivo lasciamo liberi gli schiavi, sciogliamo i debiti, lasciamo riposare la terra e restituiamo la maggior parte dei beni ai proprietari originari. Tutto questo non ha a che fare con gli interventi di Dio nella storia, ma con il suo ruolo di Creatore e proprietario dell’universo.
Un modo per vedere la differenza tra il primo ciclo e il secondo è confrontare le preghiere di Pesach, Shavuot e Succot con quelle di Rosh Hashanah e Yom Kippur. L’Amidà di Pesach, Shavuot e Succot inizia con la frase “Ci hai scelti tra tutti i popoli”. L’enfasi è sulla particolarità ebraica. Al contrario, l’Amidà di Rosh Hashanah e Yom Kippur inizia parlando di “tutto ciò che hai fatto, tutto ciò che hai creato”. L’enfasi è sull’universalità: sul giudizio che colpisce tutta la creazione, tutto ciò che vive.
Anche Succot ha una marcata spinta universalistica con i suoi settanta tori sacrificali che rappresentano le “settanta nazioni”. Secondo Zaccaria 14, è la festa che un giorno sarà celebrata da tutte le nazioni.
Perché questa dualità? Perché Dio è sia il Dio della natura che della cultura. È il Dio di tutti in generale e del popolo dell’alleanza in particolare. È l’Autore sia della legge scientifica (causa) sia della legge etico-religiosa (comando).
Incontriamo Dio sia nel tempo ciclico, che rappresenta il movimento dei pianeti, sia nel tempo lineare-storico, che rappresenta gli eventi e l’evoluzione della nazione di cui facciamo parte. Proprio questa dualità dà origine a due tipi di leader religiosi: il Profeta e il Sacerdote, e alla diversa coscienza del tempo che ciascuno di essi rappresenta.
Fin dagli antichi greci si è cercato un unico principio che spiegasse tutto, o il singolo punto che Archimede cercava per muovere il mondo, o la prospettiva unica (quella che i filosofi chiamano “la vista dal nulla”) da cui vedere la verità in tutta la sua oggettività.
L’ebraismo ci dice che non esiste un punto del genere. La realtà è più complicata di così. Non esiste nemmeno un unico concetto di tempo. Perlomeno abbiamo bisogno di due prospettive per poter vedere la realtà in tre dimensioni, e questo vale sia per il tempo che per lo spazio. Il tempo ebraico ha due ritmi contemporaneamente.
L’ebraismo sta allo spirito come la teoria della complementarità di Niels Bohr (fisico danese 1885-1962) sta alla fisica quantistica. In fisica la luce è sia un’onda che una particella. Nell’ebraismo il tempo è sia storico che naturale. Inaspettato, controintuitivo, certo. Ma glorioso nel suo rifiuto di semplificare la ricca complessità del tempo: il ticchettio dell’orologio, la pianta in crescita, il corpo che invecchia e la mente sempre più profonda.
Redazione Jonathan Sacks zzl