Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò
Con la parashà di Ha’azinu raggiungiamo una delle vette della spiritualità ebraica. Per un mese Mosè istruì il popolo. Gli raccontò la loro storia, il loro destino e le leggi che avrebbero reso la loro società unica e formata da persone legate in un patto tra loro e Dio. Rinnovò quindi questa l’alleanza e poi passò la guida al suo successore e discepolo Giosuè. Il suo atto finale, prima di uscire di scena, avrebbe dovuto essere quello di benedire il popolo, tribù per tribù tuttavia prima c’era ancora una cosa che doveva fare. Doveva riassumere il suo messaggio profetico in un modo che le persone lo avrebbero sempre ricordato e dal quale sarebbero state ispirate. Sapeva che il modo migliore per farlo sarebbe stato attraverso la musica. Quindi l’ultima cosa che Mosè fece prima di dare al popolo la sua benedizione sul letto di morte, fu insegnare loro una cantica.
C’è qualcosa di profondamente spirituale nella musica. Quando il linguaggio aspira al trascendente e l’anima desidera liberarsi dall’attrazione gravitazionale della terra, si modula nel canto. La storia ebraica non è tanto letta quanto cantata. I rabbini hanno enumerato dieci canti nei momenti chiave della vita della nazione. Tra questi il canto degli Israeliti in Egitto (vedi Isaia 30:29), la cantica dopo il passaggio del Mar Rosso (Esodo 15), la cantica al pozzo (Numeri 21), e Ha’azinu, la cantica di Mosè alla fine della sua vita. Giosuè anche cantò una cantica (Giosuè 10:12-13). Così fecero Debora (Giud. 5), Anna (1 Sam. 2) e Davide (Sam. II 22). In fine abbiamo il Cantico dei Cantici, Shir ha-Shirim, riguardo al quale Rabbi Akiva disse: “Tutti i canti sono sacri, ma il Cantico dei Cantici è il santo dei santi”.
Il decimo canto non è stato ancora cantato. È il canto del Messia.
Molti testi biblici parlano del potere della musica di risanare l’anima. Quando Saul era depresso, Davide suonava per lui e il suo spirito si ristabiliva (1 Sam. 16). Davide stesso era conosciuto come il “dolce cantore d’Israele” (Sam. II 23:1). Eliseo chiese che un arpista suonasse affinché lo spirito profetico potesse riposare su di lui (2 Re 3:15). I leviti cantavano nel tempio. Ogni giorno, nell’ebraismo, prefiggiamo le nostre preghiere del mattino con Pesukei deZimra, i “Versetti del canto” con il loro magnifico crescendo, Salmo 150, in cui gli strumenti e la voce umana si uniscono per cantare le lodi di Dio.
I mistici vanno oltre e parlano del canto dell’universo, quello che Pitagora chiamava “la musica delle sfere”. Questo è ciò che intende il Salmo 19 quando dice: “I cieli raccontano la gloria di Dio; i cieli proclamano l’opera delle Sue mani. . . Non c’è discorso, non ci sono parole, dove la loro voce non viene ascoltata. La loro musica si diffonde per tutta la terra, le loro parole arrivano fino ai confini del mondo”. Sotto il silenzio, udibile solo dall’orecchio interiore, la creazione canta al suo Creatore.
Allora, quando preghiamo, non leggiamo: cantiamo. Quando ci confrontiamo con i testi sacri, non recitiamo: cantiamo. Ogni testo e ogni tempo ha, nell’ebraismo, una sua specifica melodia. Ci sono melodie diverse per Shacharit, Minchah e Ma’ariv, le preghiere del mattino, del pomeriggio e della sera. Ci sono diverse melodie e stati d’animo per le preghiere di un giorno feriale, per lo Shabbat, per le feste dei tre pellegrinaggi, Pesach Shavuot e Succot (che hanno molto in comune musicalmente, ma anche delle melodie distintive per ciascuna), e per i Yamim Noraim, Rosh Hashanah e Yom Kippur.
Ci sono melodie diverse per testi diversi. C’è un tipo di cantillazione per la Torà, un’altra per le haftorot dei libri profetici, e ancora un’altra per i Ketuvim, gli Scritti, specialmente le cinque Meghillot. C’è un canto particolare per studiare i testi della Mishnah e della Gemara. Quindi solo dalla musica possiamo capire che tipo di giornata è, e che tipo di testo viene utilizzato. I testi e i tempi ebraici non sono codificati a colori ma codificati a livello musicale. La mappa delle parole sante è scritta in melodie e canti.
La musica ha il potere straordinario di evocare emozioni. La preghiera Kol Nidrei con cui inizia lo Yom Kippur non è affatto una preghiera. È una formula giuridica secca per l’annullamento dei voti. Non ci sono dubbi che sia stata la sua melodia antica e inquietante a dargli presa sull’immaginazione ebraica. È difficile ascoltare quelle note e non sentire di essere alla presenza di Dio nel Giorno del Giudizio, in compagnia degli ebrei di ogni luogo e tempo mentre implorano il perdono del cielo. È il sancta sanctorum dell’anima ebraica.
Non puoi sederti a Tisha b’Av leggendo Echà, il libro delle Lamentazioni, con la sua cantillazione unica, e non sentire, con il dolore di allora come quello del giorno in cui il Tempio fu distrutto, le lacrime degli ebrei attraverso i secoli mentre soffrivano per la loro fede e piangevano mentre ricordavano ciò che avevano perso. Le parole senza musica sono come un corpo senza anima.
Beethoven scrisse sul manoscritto del terzo movimento del suo Quartetto in La minore le parole Neue Kraft fühlend, “Sentire una nuova forza”. Questo è ciò che la musica esprime ed evoca. È il linguaggio delle emozioni, non indebolito dalla pallida sfumatura del pensiero. Questo è ciò che intendeva re Davide quando cantò a Dio le parole: “Hai trasformato il mio dolore in danza; Mi hai tolto il sacco e mi hai vestito di gioia, affinché il mio cuore canti per te e non taccia». Senti la forza dello spirito umano che nessun terrore può distruggere.
Nel suo libro Musicophilia, il compianto Oliver Sacks (ahimè, non mi è parente) ha raccontato la toccante storia di Clive Wearing, un eminente musicologo colpito da una devastante infezione al cervello, il cui risultato fu un’amnesia acuta. Non riusciva a ricordare nulla per più di pochi secondi. Come disse sua moglie Deborah, “Era come se ogni momento di veglia fosse il primo”.
Incapace di mettere insieme le esperienze, era intrappolato in un presente infinito che non aveva alcun collegamento con tutto ciò che era accaduto prima. Un giorno sua moglie lo trovò che teneva un cioccolatino in una mano e lo copriva e lo scopriva ripetutamente con l’altra mano, dicendo ogni volta: “Guarda, è nuovo”. “È lo stesso cioccolatino” lei rispose. “No”, disse, “guarda. È cambiato. Non aveva alcun passato.
Due cose ruppero il suo isolamento. Una era l’amore per sua moglie. L’altra era la musica. Sapeva ancora cantare, suonare l’organo e dirigere un coro con tutta la sua vecchia abilità e verve. Cosa c’era nella musica, chiese Sacks, che gli permise, mentre suonava o dirigeva, di superare la sua amnesia? Suggerì che quando “ricordiamo” una melodia, ricordiamo una nota alla volta, ma ogni nota si riferisce al tutto. Citò il filosofo della musica Victor Zuckerkandl che scrisse: “Ascoltare una melodia significa ascoltare, aver ascoltato e essere sul punto di ascoltare, tutto allo stesso tempo. Ogni melodia ci dichiara che il passato può essere lì senza essere ricordato, il futuro senza essere previsto”. La musica è una forma di continuità percepita che a volte può rompere le disconnessioni più opprimenti nella nostra esperienza del tempo.
La fede è più simile alla musica che alla scienza. La scienza analizza, la musica integra. E come la musica collega nota a nota, così la fede collega episodio a episodio, vita a vita, epoca ad epoca in una melodia senza tempo che irrompe nel tempo. Dio è il compositore e il librettista. Ognuno di noi è chiamato ad essere voce nel coro, cantore del canto di Dio. La fede è la capacità di sentire la musica sotto il rumore.
Quindi la musica è un segnale di trascendenza. Il filosofo e musicista Roger Scruton (1944-2020) scrisse che si tratta di “un incontro con il soggetto puro, liberato dal mondo degli oggetti, e che si muove obbediente alle sole leggi della libertà”. Citò Rilke (1875-1926 poeta austriaco): “Le parole escono ancora dolcemente verso l’indicibile / E la musica, sempre nuova, da pietre palpitanti / costruisce nello spazio inutile la sua dimora divina». Nei suoi canti è scritta la storia dello spirito ebraico.
Una volta ho visto un insegnante spiegare ai bambini la differenza tra un possesso fisico e uno spirituale. Fece costruire un modellino di carta di Gerusalemme. Poi fece ascoltare una canzone su Gerusalemme da una cassetta e la insegnò alla classe. Alla fine della seduta fece qualcosa di molto drammatico. Strappò il modellino e distrusse il nastro. Poi chiese ai bambini: “Abbiamo ancora il modellino?” Risposero: No. “Abbiamo ancora la canzone?” Risposero: sì. Perdiamo i beni fisici, ma non quelli spirituali. Abbiamo perso il Mosè fisico. Ma abbiamo ancora la sua cantica.
Di rav Jonathan Sacks zzl