Nella parashat Haazinu Moshé parla dell'importanza delle radici

Parashat Haazinu. L’importanza delle proprie radici nell’ultimo discorso di Moshè

Parashà della settimana

Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò
La maggior parte della parashà di Ha’azinu è composta dalla cantica di Moshè, un canto di settanta righe detta dal leader al popolo d’Israele nell’ultimo giorno della sua vita.

Invitando il cielo e la terra come suoi testimoni, Moshè incita il popolo a “Ricordare i giorni passati, considerare gli anni di molte generazioni; chiedi a tuo padre e lui te lo racconterà, I tuoi saggi ed essi te lo diranno”. Come D-o li ha trovati una terra deserta e li ha trasformati in un un popolo e donato una terra abbondante. La cantica avverte anche delle insidie della sovrabbondanza e delle disgrazie che accadranno che ne risulteranno. Alla fine però, Moshè promette, il Sign-re vendicherà il sangue dei Suoi servi e si riconcilierà con il Suo popolo e la sua terra.
La parashà termina con l’istruzione di D-o a Moshè di salire sulla cima del monte Nevo dal quale potrà vedere la Terra Promessa prima di morire su quel monte. “Poichè tu vedrai la terra dinanzi a te, ma non andrai lì, nella terra che Io do ai figli d’Israele”.

Commento

Nachman di Breslav insegna: “Nel ricordo è il segreto della liberazione.” La Torà in un sublime discorso di Moshè in Deuteronomio 32,7, fa dire al popolo: “ Ricorda i tempi antichi, cerca di capire il corso della storia! Chiedetelo ai vostri padri e ve lo spiegheranno, ai vostri anziani e ve lo diranno!”
Il ricordo chiaramente non basta, bisogna comprendere il passato, analizzarlo, farlo proprio e fare nostri i valori che esso ci offre come elemento ereditario.
Le radici di ogni persona, di ogni popolo sono la fonte della propria identità, la linfa vitale con la quale vivere la modernità e dare senso compiuto al presente che siamo chiamati a vivere ed al futuro che consegneremo a chi verrà dopo di noi.
Le radici sono fonte di orgoglio, di consapevolezza, ma il passo tra orgoglio e sciovinismo è davvero breve, perché se è vero che la “nobiltà obbliga” è anche vero che “lo snobismo obbliga” e che, come insegnava il rabbino Pinhas Peli: “ Per un ebreo avere un rabbino nell’albero genealogico è molto probabile, avere un rabbino come nipote è la vera sfida ebraica dei nostri tempi.”
Essere orgogliosi delle proprie radici, ebraicamente parlando, non è una fissazione o un passatempo, ma deve essere un impegno educativo delicato e profondo che si esprime in una consapevolezza tra il messaggio identitario che riceviamo dal nostro passato ed il messaggio identitario che trasmettiamo al nostro futuro.
E nella consapevolezza è racchiusa la salvezza di un orgoglio identitario sano e la distanza da uno sciovinismo razzista, un appartenenza che non trasmette nessun valore ma è solo una espressione egoistica di ciò che ci “raccontiamo essere”.
Hannah Arendt, la filosofa ebrea tedesca naturalizzata americana, tracciando una differenza tra il pariah, l’ebreo orgoglioso e consapevole, ed il parvenu, lo sciovinista al quale null’altro rimane se non il senso di casta, scrive: “Tutte le vantate qualità ebraiche – il “cuore ebraico”, l’umanità, lo humour, l’intelligenza disinteressata – sono qualità del pariah. Tutti i difetti ebraici – la mancanza di tatto, la stupidità politica, i complessi di inferiorità e l’avidità di denaro – sono caratteristiche dei parvenu. Ci sono sempre stati ebrei convinti che non valesse le pena scambiare la loro umanità e la loro innata capacità di comprendere la realtà con la grettezza dello spirito di casta.[…]”
La tragedia peggiore, dice il maestro chassidico Aaron di Karlin, si ha quando un principe dimentica di essere un principe.

L’orgoglio delle proprie radici è davvero un bene prezioso. È però un’arma a doppio taglio: se perdiamo i valori che le radici ci trasmettono, esse diventano solo un “ricordo”, un oggetto antico, un pezzo di antiquariato, mentre la Torà ci esorta a capire il “ricordo”, a farlo nostro, a farlo essere un valore per la vita.

Di Rav Pinchas Punturello