Parasha

Parashat Kedoshim. L’etica dell’ebraismo considera le complessità della morale

Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò
Il diciannovesimo capitolo di Vaykrà, con cui inizia la nostra parashà, è una delle dichiarazioni supreme dell’etica della Torà. Parla del giusto, del bene e del santo e contiene alcuni dei più grandi comandi morali dell’ebraismo: “Amerai il tuo prossimo come te stesso” e “Il forestiero che vive in mezzo a te sia come il tuo nativo. Amalo come te stesso, perché tu eri straniero in Egitto”.

Ma il capitolo è anche straordinariamente strano. Contiene quella che sembra un miscuglio casuale di precetti, molti dei quali non hanno nulla a che fare con l’etica e hanno solo una tenue connessione con la santità: Non accoppiare diversi tipi di animali.
Non piantare il tuo campo con due tipi di semi.
Non indossare abiti tessuti con due tipi di materiale. (Vaykra 19:19) Non mangiare carne con il sangue ancora dentro. Non praticare la divinazione o la stregoneria. Non tagliare i capelli ai lati della testa e non tagliare i bordi della barba. (Vaykra 19:26-28)

E così l’elenco continua. Che cosa hanno a che fare con il giusto, il buono e il santo?
Per capire questo dobbiamo fare un enorme salto di qualità nella visione morale/sociale/spirituale unica della Torà, così diversa da quella che troviamo altrove.

L’Occidente ha avuto molti tentativi di definire un sistema morale. Alcuni si sono concentrati sulla razionalità, altri sulle emozioni come la simpatia e l’empatia. Per alcuni il principio centrale era il servizio allo Stato, per altri il dovere morale, per altri ancora la massima felicità del maggior numero. Queste sono tutte forme di semplicità morale.

L’ebraismo insiste sull’opposto: la complessità morale. La vita morale non è facile. A volte i doveri o le lealtà si scontrano. A volte la ragione dice una cosa, l’emozione un’altra. Più fondamentalmente, l’ebraismo ha identificato tre distinte sensibilità morali, ognuna delle quali ha la sua voce e il suo vocabolario. Esse sono [1] l’etica del re, [2] l’etica del sacerdote e, fondamentalmente, [3] l’etica del profeta.

Geremia ed Ezechiele parlano delle loro sensibilità distintive: Perché l’insegnamento della legge [Torà] da parte del sacerdote non cesserà, né il consiglio [etzah] del saggio [chacham], né la parola [davar] dei profeti. (Geremia 18:18)

Andranno alla ricerca di una visione [chazon] del profeta, l’insegnamento sacerdotale della legge [Torà] cesserà, il consiglio [etzah] degli anziani avrà fine. (Ezechiele 7:26)

I sacerdoti pensano in termini di Torà. I profeti hanno “la Parola” o “una visione”. Gli anziani e i saggi hanno “etzah”. Che cosa significa?

I re e le loro corti sono associati nel giudaismo alla saggezza – chochmah, etzah e i loro sinonimi. Diversi libri del Tanach, tra cui spiccano i Proverbi e l’Ecclesiaste (Mishlei e Kohelet), sono libri di “saggezza”, il cui esemplare supremo è il re Salomone. La sapienza nell’ebraismo è la forma più universale di conoscenza e la letteratura sapienziale è quella che più si avvicina alla Bibbia ebraica e alle altre letterature del vicini oriente antico e dei saggi ellenistici. È pratica, pragmatica, basata sull’esperienza e sull’osservazione; è giudiziosa, prudente. È una ricetta per una vita sicura e sana, senza eccessi o estremi, ma difficilmente drammatica o trasformativa. Questa è la voce della saggezza, la virtù dei re.

La voce profetica è molto diversa, appassionata, vivida, radicale nella sua critica all’abuso di potere e allo sfruttamento della ricchezza. Il profeta parla a nome del popolo, dei poveri, degli oppressi, degli abusati. Pensa alla vita morale in termini di relazioni: tra Dio e l’umanità e tra gli stessi esseri umani. I termini chiave per il profeta sono tzedek (giustizia distributiva), mishpat (giustizia retributiva), chessed (amorevolezza) e rachamim (misericordia, compassione). Il profeta ha intelligenza emotiva, simpatia ed empatia, e sente la condizione di chi è solo e oppresso. La profezia non è mai astratta. Non pensa in termini universali. Risponde al qui e ora del tempo e del luogo. Il sacerdote ascolta la parola di Dio per tutti i tempi. Il profeta ascolta la parola di Dio per questo tempo.

L’etica del sacerdote, e della santità in generale, è di nuovo diversa. Le attività chiave del sacerdote sono lehavdil – discriminare, distinguere e dividere – e lehorot – istruire le persone sulla legge, sia in generale come insegnanti che in casi specifici come giudici. Le parole chiave del sacerdote sono kodesh e chol (santo e profano), tame e tahor (impuro e puro).

Il passo più importante della Torà che parla con voce sacerdotale è il capitolo 1 di Bereshit, il racconto della creazione. Anche qui un verbo chiave è lehavdil, dividere, che compare cinque volte. Dio divide tra luce e buio, acque superiori e inferiori, giorno e notte. Altre parole chiave sono “benedire” – Dio benedice gli animali, l’umanità e il settimo giorno; e “santificare” (kadesh) – alla fine della creazione Dio santifica lo Shabbat. In altre parti della Torà il verbo lehavdil e la radice kadosh ricorrono in un contesto sacerdotale; sono i sacerdoti a benedire il popolo.

Il compito del sacerdote, come quello di Dio alla creazione, è quello di portare ordine dal caos. Il sacerdote stabilisce dei confini sia nel tempo che nello spazio. Ci sono tempi e luoghi sacri, e ogni tempo e luogo ha una sua integrità, una sua collocazione nello schema totale delle cose. La protesta del kohen è contro l’offuscamento dei confini così comune nelle religioni pagane – tra gli dei e gli uomini, tra la vita e la morte, tra i sessi e così via. Il peccato, per il kohen, è un atto compiuto nel posto sbagliato e la sua punizione è l’esilio, l’essere scacciati dal posto che spetta loro. Una buona società, per il kohen, è quella in cui ogni cosa è al suo posto, e il kohen ha una sensibilità speciale verso l’estraneo, la persona che non ha un proprio posto.

La strana raccolta di mitzvot in Kedoshim si rivela quindi non essere affatto incomprensibile. Il codice di santità vede l’amore e la giustizia come parte di una visione totale di un universo ordinato in cui ogni cosa, persona e atto hanno il loro giusto posto, ed è questo ordine che viene minacciato quando il confine tra diversi tipi di animali, cereali, tessuti viene violato; quando il corpo umano viene lacerato; o quando le persone mangiano il sangue, segno di morte, per alimentare la vita.

Nell’Occidente secolare conosciamo bene la voce della saggezza. È un terreno comune tra i libri dei Proverbi e dell’Ecclesiaste e i grandi saggi, da Aristotele a Marco Aurelio a Montaigne. Conosciamo anche la voce profetica e quello che Einstein ha definito il suo “amore quasi fanatico per la giustizia”. Conosciamo molto meno l’idea sacerdotale secondo cui, come esiste un ordine scientifico nella natura, esiste anche un ordine morale, che consiste nel tenere separate le cose che sono separate e nel mantenere i confini che rispettano l’integrità del mondo che Dio ha creato e che sette volte ha dichiarato buono.

La voce sacerdotale non è marginale nel giudaismo. È centrale, essenziale. È la voce del primo capitolo della Torà. È la voce che ha definito la vocazione ebraica come “regno di sacerdoti e nazione santa”. Domina Vaykra, il libro centrale della Torà. E mentre lo spirito profetico vive nell’ haggadah, la voce sacerdotale prevale nella halachah. E lo stesso nome Torà – dal verbo lehorot – è una parola sacerdotale.

Forse l’idea dell’ecologia, una delle scoperte chiave dei tempi moderni, ci permetterà di comprendere meglio la visione sacerdotale e il suo codice di santità, che vedono l’etica non solo come saggezza pratica o giustizia profetica, ma anche come onore alla struttura profonda – l’ontologia sacra – dell’essere. Un universo ordinato è un universo morale, un mondo in pace con il suo Creatore e con se stesso.

 

Redazione Rabbi Jonathan Sacks zzl