Parashat Ki Tavò. Tramandando la sua storia, il popolo ebraico ha mantenuto identità, valori e libertà

Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò
Ecco un esperimento. Camminate intorno ai grandi monumenti di Washington D.C. Lì, in fondo, c’è la figura di Abramo Lincoln, quattro volte a grandezza naturale. Intorno a lui, sulle pareti del monumento, ci sono i testi di due dei più grandi discorsi della storia, il Discorso di Gettysburg e il secondo discorso inaugurale di Lincoln: “Con malizia verso nessuno, con carità per tutti, con fermezza nel diritto come Dio ci dà di vedere il giusto…

Poco distante si trova il Franklin Delano Roosevelt Memorial con le sue citazioni di ogni periodo della vita del Presidente come leader, la più famosa delle quali è: “L’unica cosa che dobbiamo temere è la paura stessa”.

Continuando a camminare lungo il Potomac si arriva al Jefferson Memorial, modellato sul Pantheon di Roma. Anche qui troverete, intorno alla cupola e sulle pareti interne, citazioni del grande uomo, la più famosa delle quali è quella della Dichiarazione d’Indipendenza: “Riteniamo che queste verità siano evidenti…”.

Ora visitate Londra. Troverete molti monumenti e statue di grandi personaggi. Ma non troverete citazioni. La base della statua vi dirà chi rappresenta, quando è vissuto e la posizione che ha occupato o il lavoro che ha svolto, ma nessuna narrazione, nessuna citazione, nessuna frase memorabile o parola chiave.

Prendiamo la statua di Winston Churchill in Parliament Square. Churchill è stato uno dei più grandi oratori di tutti i tempi. I suoi discorsi e le sue trasmissioni in tempo di guerra fanno parte della storia britannica. Ma nessuna sua parola è incisa sul monumento, e lo stesso vale per quasi tutti gli altri commemorati pubblicamente.

È una differenza sorprendente. Una società – gli Stati Uniti d’America – racconta una storia sui suoi monumenti, una storia intessuta dei discorsi dei suoi più grandi leader. L’altra, l’Inghilterra, non lo fa. Costruisce monumenti, ma non racconta una storia. Questa è una delle profonde differenze tra una società di alleanza e una società basata sulla tradizione.

In una società basata sulla tradizione come l’Inghilterra, le cose sono come sono perché è così che sono state. L’Inghilterra, scrive Roger Scruton (filosofo britannico 1944-2020) “non era una nazione o un credo o una lingua o uno Stato, ma una casa. Le cose a casa non hanno bisogno di spiegazioni. Sono lì perché sono lì”.

Le società di alleanza sono diverse. Non adorano la tradizione per il gusto della tradizione. Non danno valore al passato perché è vecchio. Ricordano il passato perché sono stati gli eventi del passato a portare alla determinazione collettiva che ha spinto le persone a creare la società. I Padri Pellegrini d’America fuggivano dalle persecuzioni religiose alla ricerca della libertà religiosa. La loro società è nata con un atto di impegno morale, tramandato alle generazioni successive.

Le società di alleanza esistono non perché sono lì da molto tempo, né per un atto di conquista, né per un vantaggio economico o militare. Esistono per onorare una promessa, un legame morale, un impegno etico. Ecco perché raccontare la storia è essenziale per una società di alleanza. Ricorda a tutti i cittadini perché sono lì.

L’esempio classico di racconto della storia si trova nella parashà di questa settimana, nel contesto del portare le primizie a Gerusalemme: «Il sacerdote prenderà la cesta dalle tue mani e la poserà davanti all’altare del Signore tuo Dio. Poi dichiarerai davanti al Signore tuo Dio: “Mio padre era un arameo errante, scese in Egitto con poche persone, visse lì e divenne una grande nazione, potente e numerosa…”. Il Signore ci fece uscire dall’Egitto con mano potente e braccio teso, con grande turbamento, con segni e prodigi. Ci portò in questo luogo e ci diede questa terra, una terra che scorre con latte e miele; e ora io porto le primizie del terreno che tu, Signore, mi hai dato”». (Deuteronomio 26:4-10)

Tutti conosciamo questo passo. Invece di recitarlo a Shavuot, quando si portano le primizie, lo recitiamo a Pesach come parte centrale della Haggadà. Ciò che colpisce ancora è che, anche ai tempi della Bibbia, ci si aspettava che ogni membro della nazione conoscesse la storia della nazione, che la recitasse ogni anno e che la facesse diventare parte della sua memoria personale e della sua identità: “Mio padre… così il Signore ci fece uscire”.

Un’alleanza è più di un mito di origine, come la storia romana di Romolo e Remo o quella inglese di Re Artù e dei suoi cavalieri. A differenza di un mito, che pretende semplicemente di raccontare ciò che è accaduto, un’alleanza contiene sempre una serie specifica di impegni che vincolano i suoi cittadini nel presente e nel futuro.

Ecco ad esempio Lyndon Baines Johnson (politico statunitense 1908-1973) che parla dell’alleanza americana: “Sono venuti qui – l’esule e lo straniero… Hanno fatto un patto con questa terra. Concepito nella giustizia, scritto nella libertà, legato nell’unione, era destinato un giorno a ispirare le speranze di tutta l’umanità; e ci lega ancora. Se rispetteremo i suoi termini, prospereremo”.

Le società di alleanza – di cui gli Stati Uniti sono il supremo esempio contemporaneo – sono società morali, il che non significa che i loro membri siano più giusti di altri, ma che si considerano pubblicamente responsabili di determinati standard morali che fanno parte del testo e della struttura della loro identità nazionale. Essi onorano gli obblighi imposti loro dai fondatori.

In effetti, come chiarisce la citazione di Johnson, le società di alleanza vedono il loro destino legato al modo in cui rispettano o meno tali obblighi. “Se rispetteremo i suoi termini, prospereremo” – il che implica che se non lo faremo, non accadrà. È un modo di pensare che l’Occidente deve interamente al libro di Devarim, soprattutto nel secondo paragrafo dello Shema: Se obbedirete fedelmente ai comandi che vi do oggi… allora manderò la pioggia sulla vostra terra nella sua stagione… Darò erba nei campi per il vostro bestiame, e voi mangerete e sarete saziati. State attenti, perché non siate indotti ad allontanarvi e ad adorare altri dèi e a prostrarvi a loro. Allora l’ira del Signore si accenderà contro di voi, chiuderà i cieli perché non piova e il suolo non produca nulla, e voi perirete presto dalla buona terra che il Signore vi sta dando”. (Deuteronomio 11:13-17)

Le società di alleanza non sono nazioni etniche legate da una comune origine razziale. Fanno spazio agli estranei – immigrati, richiedenti asilo, stranieri residenti – che entrano a far parte della società prendendo la sua storia e facendola propria, come fece Ruth nel libro biblico che porta il suo nome (“Il tuo popolo sarà il mio popolo e il tuo Dio il mio Dio”) o come fecero le successive ondate di immigrati che arrivarono negli Stati Uniti. In effetti, la conversione nell’ebraismo è meglio compresa non sul modello della conversione a un’altra religione – come il cristianesimo o l’islam – ma come l’acquisizione della cittadinanza in una nazione come gli Stati Uniti.

È assolutamente sorprendente che il semplice atto di raccontare la storia, regolarmente, come dovere religioso, abbia sostenuto l’identità ebraica attraverso i secoli, anche in assenza di tutti i normali aspetti della nazione – terra, vicinanza geografica, indipendenza, autodeterminazione – e non ha mai permesso al popolo di dimenticare i suoi ideali, le sue aspirazioni, il suo progetto collettivo di costruire una società che fosse l’opposto dell’Egitto, un luogo di libertà, giustizia e dignità umana, in cui nessun essere umano è sovrano; in cui Dio solo è Re.

Una delle verità più profonde sulla politica del patto – il messaggio della dichiarazione delle primizie nella parashà di questa settimana – è: se vuoi sostenere la libertà, non smettere mai di raccontare la storia.

Redazione Rabbi Jonathan Sacks zzl