Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò
Più studio la Torà, più divento cosciente dell’immenso mistero dell’Esodo 33. Questo è il capitolo ambientato al centro della narrazione del Vitello d’Oro, tra l’Esodo capitolo 32 che descrive il peccato e le sue conseguenze, e l’Esodo capitolo 34 con la rivelazione di Dio a Mosè dei Tredici Attributi della Misericordia, la seconda serie di Tavole e il rinnovamento dell’Alleanza. Credo sia questo mistero che inquadra la forma della spiritualità ebraica.
Ciò che lascia perplessi nel capitolo 33 è, in primo luogo, che non è chiaro di cosa si tratta. Cosa stava facendo Mosè? Nel capitolo precedente aveva già pregato due volte perché il popolo fosse perdonato. Nel capitolo 34 prega di nuovo per il perdono. Cosa stava cercando di ottenere allora nel capitolo 33?
In secondo luogo, le richieste di Mosè erano strane. Disse: “Mostrami ora le tue vie” (Esodo 33:13) e “Mostrami ora la tua gloria” (Esodo 33:18). Queste sembrano più richieste di comprensione metafisica o esperienza mistica che di perdono. Hanno a che fare con Mosè come individuo, non con le persone per conto delle quali stava pregando. Questo è stato un momento di crisi nazionale. Dio era arrabbiato. Le persone erano traumatizzate. L’intera nazione era allo sbando. Non era questo il momento per Mosè di chiedere un seminario di teologia.
Terzo, più di una volta la narrazione sembra tornare indietro nel tempo. Nel versetto 4, per esempio, si dice: “Nessuno si è messo i suoi ornamenti”, poi nel versetto successivo Dio dice: “Ora, dunque, togliti i tuoi ornamenti”. (Esodo 33:5) Nel versetto 14, Dio dice: “La mia presenza procederà con te”. Nel versetto 15, Mosè dice: “Se la tua presenza non viene con noi, non farci lasciare questo luogo”. In entrambi i casi il tempo sembra rovesciarsi: alla seconda frase risponde la precedente. La Torà sta chiaramente attirando la nostra attenzione su qualcosa, ma cosa?
A questo si aggiunge il mistero del Vitello stesso: era o non era un idolo? Il testo afferma che il popolo disse: “Questo, Israele, è il tuo Dio che ti ha fatto uscire dall’Egitto” (Esodo 32:4). Ma dice anche che cercarono il vitello perché non sapevano cosa fosse successo a Mosè. Stavano cercando un sostituto per lui o per Dio? Qual era il loro peccato?
Intorno a tutto questo c’è il mistero più grande della precisa sequenza di eventi coinvolti nei lunghi passaggi sul Mishkan, prima e dopo il Vitello d’Oro. Qual era il rapporto tra il Santuario e il Vitello?
Al centro del mistero c’è lo strano e inquietante dettaglio dei versetti 7-11. Questo ci dice che Mosè prese la sua tenda e la piantò fuori dall’accampamento. Cosa c’entra questo con l’argomento in questione, vale a dire il rapporto tra Dio e il popolo dopo il Vitello d’oro? In ogni caso, fu sicuramente la cosa peggiore che Mosè potesse fare in quel momento e in quelle circostanze. Dio aveva appena annunciato che “non salirò in mezzo a te” (Esodo 33:3). Per questo, la gente era profondamente angosciata. Essi “fecero lutto” (Esodo 33:4). Per Mosè, quindi, lasciare l’accampamento doveva essere stato doppiamente demoralizzante. Nei momenti di disagio collettivo, un leader deve essere vicino alla gente, non distante.
Ci sono molti modi di leggere questo testo criptico, ma mi sembra che l’interpretazione più potente e semplice sia questa. Mosè stava recitando la sua preghiera più audace, così audace che la Torà non la dice direttamente ed esplicitamente. Dobbiamo ricostruirla da anomalie e indizi all’interno del testo stesso.
Il capitolo precedente presuppone che il popolo fu preso dal panico a causa dell’assenza di Mosè, il loro capo. Dio stesso lo comprese quando disse a Mosè: “Scendi, perché il tuo popolo, che hai fatto uscire dall’Egitto, si è corrotto” (Esodo 32:7). Il suggerimento è che l’assenza o la distanza di Mosè sia stata la causa del peccato. Avrebbe dovuto stare più vicino alla gente. Mosè colse il punto. Scese dal monte. Punì i colpevoli. Pregò Dio di perdonare il popolo. Questo era il tema del capitolo 32. Ma nel capitolo 33, dopo aver ristabilito l’ordine nel popolo, Mosè iniziò una linea di approccio completamente nuova. Stava, in effetti, dicendo a Dio: Ciò di cui la gente ha bisogno non è che io stia loro vicino. Sono solo un essere umano, qui oggi, domani chissà. Ma Tu sei eterno. Tu sei il loro Dio. Hanno bisogno che tu sia vicino a loro.
Era come se Mosè dicesse: Finora ti hanno sperimentato come una forza terrificante, elementare, che ha portato piaga dopo piaga agli Egiziani, ha messo in ginocchio il più grande impero del mondo, ha diviso il mare, ha ribaltato l’ordine stesso della natura. Sul monte Sinai, al solo sentire la tua voce, furono così sopraffatti che dissero, se continuiamo a sentire la voce, “moriremo” (Esodo 20:16). Il popolo aveva bisogno, disse Mosè, di sperimentare non la grandezza di Dio ma la vicinanza di Dio, non Dio udito nei tuoni e nei fulmini in cima alla montagna, ma come presenza perpetua nella valle sottostante.
Per questo Mosè tolse la tenda e la piantò fuori dell’accampamento, come per dire a Dio: Non è della mia presenza che il popolo ha bisogno in mezzo a loro, ma della Tua. Ecco perché Mosè cercò di comprendere la vera natura di Dio stesso. È possibile che Dio sia vicino a dove sono le persone? La trascendenza può diventare immanenza? Può il Dio che è più vasto dell’universo vivere nell’universo in modo prevedibile, comprensibile, non solo sotto forma di intervento miracoloso?
A questo, Dio ha risposto in modo altamente strutturato. In primo luogo, ha detto: non puoi capire le mie vie. “Farò grazia a chi vorrò fare grazia e avrò misericordia di chi vorrò usare misericordia” (Esodo 33:19). C’è un elemento della giustizia divina che deve sempre sfuggire alla comprensione umana. Non possiamo entrare pienamente nella mente di un altro essere umano, tanto meno nella mente del Creatore stesso.
Secondo, “Non puoi vedere la mia faccia, perché nessuno può vedermi e vivere” (Esodo 33:20). Gli esseri umani possono al massimo “vedere la Mia schiena”. Anche quando Dio interviene nella storia, possiamo vederlo solo in retrospettiva, guardando indietro. Stephen Hawking* si sbagliava. Anche se decodifichiamo ogni mistero scientifico, non conosceremo ancora la mente di Dio.
Terzo, Tuttavia puoi vedere la Mia “gloria”. Questo è ciò che Mosè chiese una volta che si rese conto che non avrebbe mai potuto conoscere le “vie” di Dio o vedere il Suo “volto”. Questo è ciò che Dio fece passare mentre Mosè stava “in una fenditura della roccia” (Esodo 33:22). Non sappiamo in questa fase esattamente cosa si intende per gloria di Dio, ma lo scopriamo proprio alla fine del libro dell’Esodo. I capitoli 35–40 descrivono come gli israeliti costruirono il Mishkan. Quando fu finito e assemblato leggiamo questo: Quindi la nuvola coprì la tenda del convegno e la gloria del Signore riempì il Mishkan. Mosè non poteva entrare nella tenda del convegno perché la nuvola si era posata su di essa e la gloria del Signore riempiva il Mishkan. (Esodo 40:34–35)
Ora comprendiamo l’intero dramma messo in moto dalla realizzazione del Vitello d’oro. Mosè implorò Dio di avvicinarsi al popolo, affinché lo incontrasse, non solo in momenti irripetibili sotto forma di miracoli, ma regolarmente, quotidianamente, e non solo come una forza che minaccia di cancellare tutto ciò che tocca, ma come una presenza che si avverte nel cuore dell’accampamento.
Ecco perché Dio comandò a Mosè di istruire il popolo a costruire il Mishkan. È ciò che intendeva quando disse: “Che mi facciano un santuario e io abiterò (veshachanti) in mezzo a loro” (Esodo 25:8). È da questo verbo che otteniamo la parola Mishkan, “Tabernacolo”, e la parola post-biblica Shechinah, che significa la Presenza Divina. Applicato a Dio, come discusso la scorsa settimana nella parashà di Terumah, significa “la presenza che è vicina”. Se è così – ed è il modo in cui Judah Halevi** ha inteso il testo – allora l’intera istituzione del Mishkan è stata una risposta divina al peccato del vitello d’oro, e un’accettazione da parte di Dio della supplica di Mosè che Egli venisse vicino alla gente. Non possiamo vedere il volto di Dio; non possiamo comprendere le vie di Dio; ma possiamo incontrare la gloria di Dio ogni volta che costruiamo una casa per la sua presenza qui sulla terra.
Questo è il miracolo continuo della spiritualità ebraica. Nessuno prima della nascita del giudaismo aveva mai immaginato Dio in modi così astratti e maestosi: Dio è più distante della stella più lontana e più eterno del tempo stesso. Eppure nessuna religione ha mai sentito Dio più vicino. Nel Tanach i profeti discutono con Dio. Nel libro dei Salmi il re Davide gli parla in termini di massima intimità. Nel Talmud Dio ascolta i dibattiti tra i Saggi e accetta le loro sentenze anche quando vanno contro una voce celeste. Il rapporto di Dio con Israele, dicevano i profeti, è come quello tra un genitore e un figlio, o tra un marito e una moglie. Nel Cantico dei Cantici è proprio così un dialogo tra due amanti infatuati. Lo Zohar, testo chiave del misticismo ebraico, usa il linguaggio più audace della passione, come in Yedid Nefesh, il poema attribuito al cabalista di Safed del XVI secolo, Rabbi Elazar Azikri.
Questa è una delle notevoli differenze tra le sinagoghe e le cattedrali del Medioevo. In una cattedrale senti la vastità di Dio e la piccolezza dell’uomo. Ma nell’Altneushul di Praga (sinagoga gotica) o nelle sinagoghe dell’Ari e quella del rabbino Joseph Caro a Tzfat, si percepisce la vicinanza di Dio e la potenziale grandezza dell’umanità. Molte nazioni adorano Dio, ma gli ebrei sono gli unici a considerarsi Suoi parenti stretti (“Israele è Mio figlio, il Mio primogenito” (Esodo 4:22).
Tra le righe di Esodo 33, se ascoltiamo con sufficiente attenzione, si avverte l’emergere di uno dei tratti più distintivi e paradossali della spiritualità ebraica. Nessuna religione ha mai tenuto Dio più in alto, ma nessuna lo ha mai sentito più vicino. Questo è ciò che Mosè ha cercato e ottenuto nel capitolo 33, nella sua conversazione più audace con Dio.
Di rav Jonathan Sacks zzl
* cosmologo, fisico, matematico, astrofisico, accademico e divulgatore scientifico britannico, fra i più autorevoli e conosciuti fisici teorici al mondo, noto soprattutto per i suoi studi sui buchi neri. (1942-2018)
** rabbino, filosofo, poeta, teologo e medico spagnolo di origine sefardita. Era soprannominato il Cantore di Sion (1075-1141)