Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò
La scorsa settimana, nella parashà di Itrò abbiamo ricevuto le Aseret Hadibrot, le “Dieci Espressioni”, i Dieci Comandamenti, conclamati come principi generali. Ora nella parashà di Mishpatim arrivano i dettagli. Ecco come iniziano: Se compri un servo ebreo, egli dovrà servirti per sei anni. Ma il settimo anno sarà libero, senza pagare nulla… Ma se il servo dichiara: “Amo il mio padrone, mia moglie e i miei figli e non voglio essere libero”, il padrone deve portarlo davanti ai giudici. Lo avvicinerà alla porta o allo stipite e gli forerà l’orecchio con un punteruolo. Allora sarà il suo servo a vita. Esodo (21:2-6)
C’è una domanda ovvia. Perché iniziare da qui, da questo precetto? Ci sono 613 comandamenti. Perché Mishpatim – il primo codice completo della Torà- inizia proprio con questo?
La risposta è altrettanto ovvia. Gli israeliti hanno sopportato la schiavitù in Egitto. Ci deve essere un motivo per cui questo è accaduto, perché Dio sapeva che sarebbe successo. Evidentemente voleva che avvenisse. Secoli prima, aveva già predetto Abramo che sarebbe stati schiavi:
Mentre il sole tramontava, Abram cadde in un sonno profondo e un’oscurità fitta e spaventosa lo avvolse. Allora il Signore gli disse: “Sappi per certo che per quattrocento anni i tuoi discendenti saranno stranieri in un Paese che non è il loro, e che lì saranno schiavizzati e maltrattati”. (Genesi 15:12-13)
Sembra che questa sia stata la prima necessaria esperienza degli Israeliti come nazione. Fin dall’inizio della storia umana, il Dio della libertà ha cercato la libera adorazione di esseri umani liberi. Ma uno dopo l’altro, gli uomini hanno abusato di questa libertà: prima Adamo ed Eva, poi Caino, poi la generazione del Diluvio, poi i costruttori di Babele.
Dio ricominciò, questa volta non con tutta l’umanità, ma con un uomo, una donna, una famiglia che sarebbero diventati pionieri della libertà. Eppure, la libertà è difficile. Ognuno di noi la cerca per sé, ma la nega agli altri quando la loro libertà è in conflitto con la nostra. È così profondamente vero che, nel giro di tre generazioni dai figli di Abramo, i fratelli di Giuseppe furono disposti a venderlo come schiavo: una tragedia che si è conclusa solo quando Giuda è stato disposto a rinunciare alla propria libertà affinché suo fratello Beniamino potesse essere libero.
C’è voluta l’esperienza collettiva degli israeliti, la loro profonda, intima, personale, straziante e amara esperienza di schiavitù – un ricordo che è stato comandato di non dimenticare mai – per trasformarli in un popolo che non avrebbe più sottomesso i propri fratelli e sorelle in stato di schiavitù, un popolo capace di costruire una società libera, la più difficile di tutte le conquiste nel regno umano.
Non sorprende quindi che le prime leggi che furono loro imposte dopo il Sinai riguardassero la schiavitù. Sarebbe stata una sorpresa se avessero riguardato qualsiasi altra cosa. Ma ora arriva la vera domanda. Se Dio non voleva la schiavitù, se la considera un affronto alla condizione umana, perché non l’ha abolita immediatamente? Perché ha permesso che continuasse, anche se in modo limitato e regolamentato, come descritto nella parashà di questa settimana? È concepibile che Dio, che può produrre l’acqua dalla roccia, la manna dal cielo e trasformare il mare in terraferma, non possa chiedere questo cambiamento nel comportamento umano? Ci sono ambiti in cui l’Onnipotente è, per così dire, impotente?
Nel 2008 l’economista statunitense Richard Thaler (1945-…) e il professore americano di diritto Cass Sunstein (1954-…) hanno pubblicato un libro affascinante, intitolato Nudge, in cui affrontano un problema fondamentale nella logica della libertà. Da un lato, la libertà dipende dalla necessità di non legiferare troppo. Significa creare uno spazio all’interno del quale le persone abbiano il diritto di scegliere da sole.
D’altra parte, sappiamo che le persone non faranno sempre le scelte giuste. Il vecchio modello su cui si basava l’economia classica, secondo cui le persone, lasciate a se stesse, compiono scelte razionali, si è rivelato non vero. Siamo profondamente irrazionali, una scoperta alla quale hanno contribuito in modo determinante diversi accademici ebrei. Gli psicologi Solomon Asch (Polonia 1907-1996) e Stanley Milgram (1933-1984 USA) hanno dimostrato quanto siamo influenzati dal desiderio di conformarci, anche quando sappiamo che gli altri hanno sbagliato. Gli economisti israeliani Daniel Kahneman (1934-…) e Amos Tversky (1937-1996) hanno dimostrato che anche quando prendiamo decisioni economiche spesso calcoliamo male i loro effetti e non riconosciamo le nostre motivazioni, una scoperta per la quale Kahneman ha vinto il Premio Nobel.
Come si fa allora a impedire alle persone di fare cose dannose senza togliere loro la libertà? La risposta di Thaler e Sunstein è che esistono modi obliqui per influenzare le persone. In una mensa, per esempio, si può mettere il cibo sano all’altezza degli occhi e il cibo spazzatura in un posto più inaccessibile e meno visibile. Si può modificare in modo sottile quella che chiamano “architettura delle scelte”.
Questo è esattamente ciò che Dio fa nel caso della schiavitù. Non la abolisce, ma la circoscrive a tal punto da mettere in moto un processo che porterà prevedibilmente le persone ad abbandonarla di propria iniziativa, anche se ci vorranno molti secoli.
Uno schiavo ebreo deve essere liberato dopo sei anni. Se lo schiavo si è talmente abituato alla sua condizione tanto da non volerci rinunciare, allora deve sottoporsi a una cerimonia stigmatizzante, facendosi bucare l’orecchio, che in seguito rimarrà come segno visibile di vergogna. Ogni Shabbat, gli schiavi non possono essere costretti a lavorare. Tutte queste clausole hanno l’effetto di trasformare la schiavitù da un destino che dura tutta la vita a una condizione temporanea, percepita come un’umiliazione piuttosto che come qualcosa di scritto in modo indelebile nella scrittura umana.
Perché scegliere questo modo di fare? Perché le persone devono scegliere liberamente di abolire la schiavitù, se vogliono essere libere. C’è voluto il regno del terrore dopo la Rivoluzione francese per dimostrare quanto Rousseau si sbagliasse quando scriveva nel “Il contratto sociale” che, se necessario, le persone devono essere costrette a essere libere. È una contraddizione in termini che ha portato, come recita il titolo del grande libro del pedagogista J. L. Talmon (polacco 1916-1980) sul pensiero alla base della Rivoluzione francese, alla democrazia totalitaria.
Dio può cambiare la natura o scegliere di non cambiarla, diceva Maimonide, ma non può farlo proprio perché l’ebraismo è costruito sul principio della libertà umana. Quindi non poteva abolire la schiavitù da un giorno all’altro, ma poteva cambiare l’architettura delle nostre scelte, o in parole povere, darci una spinta, segnalasse che la schiavitù è sbagliata ma che dobbiamo essere noi ad abolirla, nel nostro tempo, attraverso la nostra comprensione. Ci è voluto molto tempo e, in America, non senza una guerra civile. Ma è successo.
Ci sono questioni su cui Dio ci dà una spinta. Il resto dipende da noi.
Di Rabbi Jonathan Sacks zzl