Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò
La Parashat di Nasò contiene le leggi relative al nazireo, un individuo che si è impegnato a osservare regole speciali di santità e astinenza: non bere vino o altre sostanze inebrianti (incluso qualsiasi cosa a base di uva), non tagliarti i capelli e non contaminarti attraverso il contatto con i morti (Numeri. 6:1-21).
Un tale stato era solitamente intrapreso per un periodo limitato; la durata standard era di trenta giorni. C’erano però delle eccezioni, i più famosi furono Sansone e Samuele che, a causa della natura miracolosa della loro nascita, vennero consacrati prima del parto come nazirei a vita.
Ciò che la Torah non chiarisce, tuttavia, è in primo luogo perché una persona potrebbe voler intraprendere questa forma di astinenza, e in secondo luogo se considera questa scelta lodevole o semplicemente lecita. Da un lato la Torah chiama il nazireo “santo al Signore” (Numeri 6:8). Dall’altro, gli richiede, alla fine del periodo del suo voto, di portare un’offerta per il peccato (Numeri 6:13-14).
Ciò ha portato a un continuo disaccordo tra i rabbini in epoca mishnaica, talmudica e medievale. Secondo il rabbino Elazar, e poi Nahmanide, il nazireo è degno di lode. Ha volontariamente intrapreso un più alto livello di santità. Il profeta Amos disse: “Ho incoraggiato alcuni dei tuoi figli ad essere profeti e i tuoi giovani ad essere nazirei” (Amos 2:11) suggerendo che il nazireo, come il profeta, è una persona particolarmente vicina a Dio. Il motivo per cui doveva portare un’offerta per il peccato, era perchè stava tornando alla vita normale. Il suo peccato consisteva nel cessare di essere un nazireo.
Eliezer HaKappar (Tanna della V generazione) e Shmuel sostenevano l’opinione opposta. Per loro il peccato consisteva in primo luogo nel diventare nazirei e negarsi così alcuni dei piaceri del mondo che Dio ha creato e dichiarato buono. Il rabbino Eliezer ha aggiunto: “Da ciò si può dedurre che se uno nega a se stesso il godimento del vino è chiamato peccatore, tanto più colui che nega a se stesso il godimento di altri piaceri della vita”. (Taanit 11a; Nedarim 10a).
Chiaramente l’argomentazione non è meramente testuale. È sostanziale. Riguarda l’ascesi, la vita di abnegazione. Quasi tutte le religioni conoscono il fenomeno delle persone che, alla ricerca della purezza spirituale, si ritirano dai piaceri e dalle tentazioni del mondo. Vivono in grotte, eremi, monasteri. La setta di Qumran, a noi nota attraverso i Rotoli del Mar Morto, potrebbe essere stata una di tali esempi.
Nel Medioevo c’erano ebrei che adottarono simili tipi di abnegazione, tra cui i Chasidei Ashkenaz, i Pietisti del Nord Europa, così come molti ebrei nei paesi islamici. In retrospettiva, è difficile non vedere in questi modelli di comportamento almeno una qualche influenza proveniente dall’ambiente non ebraico. I Chasidei Ashkenaz che fiorirono durante il periodo delle Crociate vivevano tra cristiani che si mortificavano. Le loro controparti meridionali potrebbero aver avuto familiarità con il sufismo, il movimento mistico nell’Islam.
L’ambivalenza degli ebrei verso la vita di abnegazione può quindi risiedere nel sospetto che sia entrata nell’ebraismo dall’esterno. Ci furono movimenti ascetici nei primi secoli dell’era volgare sia in Occidente (Grecia) che in Oriente (Iran) che vedevano il mondo fisico come un luogo di corruzione e conflitto. Erano, infatti, dualisti, sostenendo che il vero Dio non era il creatore dell’universo. Il mondo fisico era opera di una divinità minore e malvagia. Perciò Dio – il vero Dio – non si trova nel mondo fisico e nei suoi godimenti, ma piuttosto nel disimpegno da essi.
I due movimenti più noti per sostenere questo punto di vista furono lo gnosticismo in Occidente e il manicheismo in Oriente. Quindi almeno parte della valutazione negativa del nazireo potrebbe essere stata guidata dal desiderio di scoraggiare gli ebrei dall’imitare pratiche non ebraiche. Il giudaismo crede fermamente che Dio si trovi in mezzo al mondo fisico che ha creato, cioè, nel primo capitolo della Genesi, sette volte pronunciato “buono”. Crede non nel rinunciare al piacere, ma nel santificarlo.
Ciò che è molto più sconcertante è la posizione di Maimonide, che sostiene entrambe le opinioni, positive e negative, nello stesso libro, il suo codice di legge il Mishne Torah. In Hilchot Deot, adotta la posizione negativa del rabbino Eliezer HaKappar:
Una persona può dire: “Il desiderio, l’onore e simili sono cattivi sentieri da seguire e rimuovono una persona dal mondo; perciò mi separerò completamente da loro e andrò all’altro estremo». Di conseguenza, non mangia carne, non beve vino, non prende moglie, non vive in una casa decente, non indossa abiti sfarzosi… Anche questo è un male, ed è vietato scegliere di fare in questo modo. (Maimonide, Mishne Torah, Hilchot Deot 3:1).
Eppure nell’Hilchot Nezirut regna la valutazione positiva del rabbino Elazar: “Chiunque giura a Dio [di diventare nazireo] per santità, fa bene ed è degno di lode…. Infatti la Scrittura lo considera uguale a un profeta”. Come può uno scrittore assumere posizioni contraddittorie in un solo libro, per non parlare del fatto che a scriverli è uno così risolutamente logico come Maimonide?
La risposta sta in una notevole intuizione di Maimonide sulla natura della vita morale come intesa dal giudaismo. Ciò che lui ha visto è che non esiste un unico modello di vita virtuosa. Ne individua due, chiamandoli rispettivamente la via del santo (chassid) e la via del saggio (chacham).
Il saggio segue la “media aurea”, la “via di mezzo”. La vita morale è una questione di moderazione ed equilibrio, tracciando un percorso tra il troppo e il troppo poco. Il coraggio, per esempio, è a metà strada tra la codardia e l’incoscienza. La generosità sta tra dissolutezza e avarizia. Ciò è molto simile alla visione della vita morale esposta da Aristotele nell’Etica Nicomachea.
Il santo, invece, non segue la via di mezzo. Tende agli estremi, digiuna piuttosto che semplicemente mangiare con moderazione, abbraccia la povertà piuttosto che acquisire modeste ricchezze, e così via. In vari punti dei suoi scritti, Rambam spiega perché le persone potrebbero abbracciare gli estremi. Una delle ragioni è il pentimento e la trasformazione del carattere. Quindi una persona potrebbe curarsi dall’orgoglio praticando, per un po’, l’estrema umiliazione di sé. Un altra è l’asimmetria della personalità umana. Gli estremi non esercitano un’eguale attrazione. La codardia è più comune dell’incoscienza e l’avarizia dell’eccessiva generosità, motivo per cui il chassid si inclina nella direzione opposta. Un terzo motivo è il richiamo della cultura circostante. Può essere così contraria ai valori religiosi che le persone pie scelgono di separarsi dalla società più ampia, “vestendosi di indumenti di lana e pelosi, dimorando sulle montagne e vagando per le terre selvagge”, differenziandosi per il loro comportamento estremo.
Questa è una presentazione molto sfumata. Ci sono momenti, per Rambam, in cui l’abnegazione è terapeutica, altri quando è presa in considerazione nella stessa legge della Torah, e altri ancora in cui è una risposta a un’età eccessivamente edonistica. In generale, però, Rambam stabilisce che ci viene comandato di seguire la via di mezzo, mentre la via del santo è lifnim mishurat hadin, al di là dei severi requisiti della legge.
Moshe Halbertal (1958-… filosofo scrittore docente) nel suo recente, impressionante studio di Rambam, lo vede come una fine della tensione fondamentale tra l’ideale civico della tradizione politica greca e l’ideale spirituale del radicale religioso per il quale, come ha detto il famoso Kotzker Rebbe, “Il mezzo della strada è per i cavalli”. Al chassid, il saggio di Rambam può sembrare un “borghese soddisfatto di sé”.
In sostanza, questi sono due modi di intendere la vita morale stessa. Lo scopo della vita è raggiungere la perfezione personale? O è creare una società dignitosa, giusta e compassionevole? La risposta intuitiva della maggior parte delle persone sarebbe dire: entrambe. Questo è ciò che rende Rambam un pensatore così acuto. Si rende conto che non puoi avere entrambe. Sono infatti imprese diverse.
Un santo può dare tutto il suo denaro ai poveri. Ma che dire dei membri della stessa famiglia del santo? Un santo può rifiutarsi di combattere in battaglia. Ma che dire del paese del santo? Un santo può perdonare tutti i crimini commessi contro di lui. Ma che dire dello Stato di diritto e della giustizia? I santi sono persone sommamente virtuose, considerate come individui. Eppure non si può costruire una società solo con i santi. In definitiva, i santi non sono realmente interessati alla società. La loro preoccupazione è la salvezza dell’anima.
Questa profonda intuizione è ciò che ha portato Rambam alle sue valutazioni apparentemente contraddittorie del nazireo. Il nazireo ha scelto, almeno per un periodo, di adottare una vita di estrema abnegazione. È un santo, un chassid. Ha adottato la via della perfezione personale. Questo è nobile, lodevole ed esemplare.
Ma non è la via del saggio – e ha bisogno di saggi se cerchi di perfezionare la società. Il saggio non è un estremista, perché si rende conto che ci sono altre persone in gioco. Ci sono i membri della propria famiglia e gli altri all’interno della propria comunità. C’è un Paese da difendere e un’economia da sostenere. Il saggio sa che non può lasciarsi alle spalle tutti questi impegni per perseguire una vita di virtù solitaria. Perché siamo chiamati da Dio a vivere nel mondo, non a fuggire da esso; esistere nella società, non isolarsene; sforzarci di creare un equilibrio tra le pressioni contrastanti su di noi, non concentrarci su alcune trascurando le altre.
Quindi, mentre dal punto di vista personale il nazireo è un santo, dal punto di vista sociale è, almeno in senso figurato, un “peccatore” che deve portare un’offerta di espiazione.
Maimonide visse la vita che predicò. Sappiamo dai suoi scritti che desiderava l’isolamento. Ci sono stati anni in cui ha lavorato giorno e notte per scrivere il suo Commento alla Mishnah, e poi al Mishneh Torah. Eppure ha anche riconosciuto le sue responsabilità nei confronti della sua famiglia e della comunità. Nella sua famosa lettera all’aspirante traduttore Ibn Tibbon, racconta la sua giornata e la sua settimana tipica – in cui ha dovuto portare un doppio fardello come medico di fama mondiale e halachista e come saggio ricercato a livello internazionale. Lavorò fino allo sfinimento. Maimonide era un saggio che desiderava essere un santo, ma sapeva che non poteva esserlo, se voleva onorare le sue responsabilità verso il suo popolo. Questo è un giudizio profondo e commovente, che ha ancora il potere di ispirare oggi.
Di rav Jonathan Sacks zl