Parashat Noach. Individuo e collettività devono avere lo stesso onore

Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò

Una volta ho avuto l’opportunità di chiedere allo scrittore cattolico Paul Johnson cosa lo avesse colpito di più dell’ebraismo, durante il lungo periodo di ricerca per la sua magistrale “Storia degli ebrei”. Rispose più o meno così: “Ci sono state, nel corso della storia, società che hanno enfatizzato l’individuo – come l’Occidente secolare di oggi. E ce ne sono state altre che hanno dato peso alla collettività – la Russia comunista o la Cina, per esempio”. L’ebraismo, ha proseguito, è stato l’esempio di maggior successo che ha saputo gestire il delicato equilibrio tra le due cose, dando lo stesso peso alla responsabilità individuale e collettiva. L’ebraismo è una religione di individui e comunità forti. Questo, ha detto, è molto raro e difficile, e costituisce una delle nostre più grandi conquiste.

Era un’osservazione saggia e sottile. Senza saperlo, aveva in effetti parafrasato l’aforisma di Hillel: “Se non sono per me stesso, chi lo sarà (responsabilità individuale)? Ma se sono solo per me stesso, cosa sono (responsabilità collettiva)?”. Questa intuizione ci permette di guardare l’argomento della parashà di Noach in un modo che altrimenti non sarebbe stato evidente.

La parashà inizia e finisce con due grandi eventi, il Diluvio da un lato, Babele e la sua torre dall’altro. A prima vista non hanno nulla in comune. I fallimenti della generazione del Diluvio sono espliciti. “La terra era corrotta davanti a Dio, la terra era piena di violenza. Dio vide che la terra era corrotta, che ogni creatura seguiva una via di corruzione sulla terra” (Genesi 6:11-12). Malvagità, violenza, corruzione, perversione: questo è il linguaggio del fallimento morale sistemico.

Babele, al contrario, sembra quasi idilliaca. “Tutta la terra aveva una sola lingua e un linguaggio comune” (Genesi 11:1).
I costruttori erano impegnati nella edificazione, non nella distruzione. Non è affatto chiaro quale sia stato il loro peccato. Tuttavia, dal punto di vista della Torà, Babele rappresenta un’altra grave svolta sbagliata, perché Dio disperse tutti i costruttori e subito dopo chiamò Abramo per iniziare un capitolo completamente nuovo nella storia religiosa dell’umanità.

Non ci sarebbe stato più nessun diluvio: Dio aveva comunque giurato che non avrebbe mai più punito l’umanità in questo modo. Come disse: “Non maledirò mai più il suolo a causa dell’uomo, perché l’inclinazione del cuore dell’uomo è malvagia fin dalla sua giovinezza. Non colpirò mai più tutta la vita come ho appena fatto”. (Genesi 8:21)
È chiaro che dopo Babele, Dio giunse alla conclusione che ci doveva essere un altro e diverso modo di vivere per gli uomini.

Sia il Diluvio che la Torre di Babele sono radicati in eventi storici reali, anche se la narrazione non è formulata nel linguaggio della storia descrittiva. La Mesopotamia aveva molti miti sul diluvio, che testimoniano il ricordo di inondazioni disastrose, soprattutto nelle terre pianeggianti della valle del Tigri-Eufrate (si veda il commento di Rabbi David Zvi Hoffman a Genesi 6, che suggerisce che il diluvio potrebbe essere stato limitato ai centri abitati dall’uomo, piuttosto che coprire l’intera terra).
Gli scavi a Suruppak, Kish, Uruk e Ur – luogo di nascita di Abramo – rivelano prove di depositi argillosi del diluvio.
Anche la Torre di Babele era una realtà storica. Erodoto racconta del recinto sacro di Babilonia, al centro del quale si trovava una ziggurat o torre di sette piani, alta 300 piedi. Sono stati scoperti i resti di oltre trenta torri di questo tipo, soprattutto nella bassa Mesopotamia, e nella letteratura dell’epoca sono stati trovati molti riferimenti che parlano di torri che “raggiungono il cielo”.

Tuttavia, le storie del Diluvio e di Babele non sono semplicemente storiche, perché la Torà non è storia ma “insegnamento, istruzione”. Sono lì perché rappresentano una profonda verità morale-sociale-politica-spirituale sulla situazione umana come la vede la Torà. Rappresentano, rispettivamente, proprio i fallimenti indicati da Paul Johnson. Il Diluvio ci dice cosa succede alla civiltà quando gli individui governano e non c’è una collettività. Babele ci dice cosa succede quando il collettivo governa e gli individui sono sacrificati ad esso.

È stato Thomas Hobbes (1588-1679), il pensatore che ha gettato le basi della politica moderna nel suo classico Leviatano (1651), che – senza fare riferimento al Diluvio – ne ha dato la migliore interpretazione.
Prima che esistessero le istituzioni politiche, diceva Hobbes, gli esseri umani erano in uno “stato di natura”. Erano individui, branchi, bande. Senza un governante stabile, un governo efficace e leggi applicabili, le persone si sarebbero trovate in uno stato di caos permanente e violento – “una guerra di ogni uomo contro ogni uomo” – mentre competevano per le scarse risorse. Ci sarebbe stata “paura continua e pericolo di morte violenta; e la vita dell’uomo sarebbe stata solitaria, povera, brutta, brutale e breve”.
Situazioni simili esistono oggi in tutta una serie di Stati falliti o in via di fallimento. È proprio questa la descrizione che la Torà fa della vita prima del Diluvio. Quando non c’è uno stato di diritto che vincoli gli individui, il mondo è pieno di violenza.

Babele è l’opposto, e ora disponiamo di importanti prove storiche su cosa si intendesse esattamente con la frase: “Tutto il paese aveva una sola lingua e un linguaggio comune”. Questo non può riferirsi all’umanità primordiale prima della divisione delle lingue. Infatti, nel capitolo precedente la Torà ha già affermato: “Da questi i popoli marittimi si sparsero nelle loro terre nei loro clan all’interno delle loro nazioni, ciascuno con la propria lingua” (Genesi 10:5). Il Talmud Yerushalmi, Megillah 1:11, 71b, riporta una disputa tra R. Eliezer e R. Johanan, uno dei quali sostiene che la divisione dell’umanità in settanta lingue avvenne prima del Diluvio.

Il riferimento sembra essere alla pratica imperiale dei neo-assiri di imporre la propria lingua ai popoli conquistati.
Un’iscrizione dell’epoca riporta che Assurnasirpal II (re degli Assiri) “fece parlare la totalità di tutti i popoli con una sola lingua”.
Un’iscrizione sul cilindro* di Sargon II (è stato anche lui un re degli Assiri) dice: “Popolazioni dei quattro quarti del mondo con lingue strane e discorsi incompatibili… che avevo preso come bottino al comando di Assur, mio signore, con la forza del mio scettro, ho fatto sì che accettassero una sola voce”.
I neo-assiri affermarono la loro supremazia insistendo sul fatto che la loro lingua era l’unica ad essere usata dalle nazioni e dalle popolazioni che avevano sconfitto. In questa lettura, Babele è una critica all’imperialismo.

C’è persino un accenno a questo nel parallelismo di linguaggio tra i costruttori di Babele e il faraone egiziano che ridusse in schiavitù gli israeliti.
A Babele dissero: “Venite, [hava] costruiamoci una città e una torre… per non essere dispersi sulla faccia della terra” (Genesi 11:4).
In Egitto il faraone disse: “Venite, [hava] trattiamoli con saggezza, perché non aumentino tanto…”. (Esodo 1:10).
Il ripetuto “Venite, facciamo… che” è troppo marcato per essere casuale. Babele, come l’Egitto, rappresentava un impero che sottometteva intere popolazioni, calpestando le loro identità e libertà.

Se è così, dovremo rileggere l’intera storia di Babele in modo da renderla molto più convincente.
La sequenza è questa: Genesi 10 descrive la divisione dell’umanità in settanta nazioni e settanta lingue. Genesi 11 racconta di come una potenza imperiale conquistò le nazioni più piccole e impose loro la propria lingua e cultura, contravvenendo così direttamente al desiderio di Dio che gli uomini rispettassero l’integrità di ogni nazione e di ogni individuo. Quando alla fine della storia di Babele Dio “confonde la lingua” dei costruttori, non sta creando un nuovo stato di cose. Sta infatti ripristinando il vecchio.

Interpretata così, la storia di Babele è una critica al potere della collettività quando schiaccia l’individualità – l’individualità delle settanta culture descritte in Genesi 10.

(Una nota personale: ho avuto il privilegio di parlare a 2.000 leader di tutte le fedi del mondo al Vertice della Pace del Millennio alle Nazioni Unite nell’agosto 2000. È emerso che erano rappresentate esattamente 70 tradizioni, ciascuna con le sue suddivisioni e sette. Sembra quindi che esistano ancora settanta culture di base).

Quando lo stato di diritto viene usato per sopprimere gli individui e le loro lingue e tradizioni distintive, anche questo è sbagliato. Il miracolo del monoteismo è che l’unità in cielo crea la diversità sulla terra, e Dio ci chiede (con ovvie condizioni) di rispettare questa diversità.

Così il Diluvio e la Torre di Babele, pur essendo opposti, sono collegati e l’intera parashà di Noach è un brillante studio della condizione umana. Ci sono culture individualiste e culture collettiviste, ed entrambe falliscono, le prime perché portano all’anarchia e alla violenza, le seconde perché portano all’oppressione e alla tirannia.

L’intuizione di Paul Johnson si rivela profonda e vera. Dopo i due grandi fallimenti del Diluvio e di Babele, Abramo fu chiamato a creare una nuova forma di ordine sociale che desse uguale onore all’individuo e alla collettività, alla responsabilità personale e al bene comune. Questo rimane il dono speciale degli ebrei e dell’ebraismo al mondo.

Redazione Rabbi Jonathan Sacks zzl

 

* Il cilindro di argilla di Sargon II è un antico artefatto mesopotamico, risalente al suo regno. Fu scoperto a Khorsabad, in Iraq, nel sito dell’antica capitale assira Dur-Sharrukin, una città fortificata costruita su ordine di Sargon II stesso. Questo cilindro, scritto in caratteri cuneiformi, è una testimonianza del suo regno e dei suoi successi militari, amministrativi e politici.

 

(Pieter Bruegel, Torre di Babale, 1563)