Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò
La Parashà racconta la storia della distruzione dell’umanità attraverso il diluvio universale e della salvezza della famiglia di Noè e degli animali. Parla poi della torre di Babele e della punizione che Dio infligge agli uomini: quella di parlare lingue diverse e di non comprendersi più.
Questa Parashà a una lettura superficiale e frettolosa sembrerebbe riferire solo episodi, per altro conosciutissimi, che la critica biblica annovera fra i miti e le leggende dell’antichità, in particolare di quei paesi che furono la culla delle civiltà orientali: parliamo del diluvio universale, dell’Arca di Noè, della Torre di Babele.
Quando però approfondiamo senza preconcetti lo studio della Parashà, scopriamo quali e quanti insegnamenti morali sono in essa racchiusi, e soprattutto la profonda diversità che corre tra il racconto dei medesimi episodi narrati dalle antiche civiltà e quello della tradizione ebraica. Ciò risulta chiaramente quando si confrontano non tanto i punti di contatto tra la narrazione biblica e quella di altre epopee per le quali è il caso o il capriccio degli dèi a causare la rovina e la rinascita del mondo, quanto le differenze fondamentali fra i due tipi di narrazione da cui emergono le profonde diversità di ideologia e di impostazione.
Se consideriamo alcuni momenti della vita di Noè sui quali la Parashà si sofferma in modo particolare, ci renderemo conto dell’alto insegnamento morale che la narrazione biblica ci impartisce: insegnamento valido in ogni tempo e in ogni luogo.
Fin dalle sue prime parole, “Noè era un uomo giusto ed integro ai suoi tempi; Noè camminava con Dio” (6,9), vengono sottolineate le qualità morali più elevate e più significative del patriarca: la giustizia e l’integrità; quelle qualità, appunto, che lo avrebbero reso degno di essere scelto dall’Eterno per salvare l’umanità nel momento in cui il mondo sarebbe stato sconvolto e l’umanità distrutta dal “diluvio”.
E, subito dopo, il motivo della decisione divina di distruggere il creato è spiegato con la dolorosa, ma inevitabile necessità di compiere giustizia perché “la terra era corrotta davanti a Dio: la terra era piena di violenza” (6,11).
A Noè, quando gli ordina di costruire l’arca, il Signore ribadisce: “Nei Miei decreti la fine di tutte le creature è giunta, poiché la terra, per opera degli uomini, è piena di violenza… Fatti un’Arca di legno di Gofer…” (6,13-14); “Entra nell’Arca con tutta la tua famiglia, poiché ti ho veduto giusto al Mio cospetto in questa generazione” (7,1).
La violenza, sotto qualsiasi forma si manifesti, annienta chi la compie. E l’umanità, che aveva attirato su di sé la collera divina, non si sarebbe potuta salvare che praticando il bene, il contrario, cioè, della violenza. Quindi Noè e la sua famiglia, otto persone in tutto, avrebbero dovuto continuare a dimostrare concretamente di saper praticare il bene.
Ed essi, questo bene, cominciano a praticarlo subito prendendosi cura, notte e giorno, per lunghi mesi, delle esigenze così diverse di ognuno degli esseri che, per ordine dell’Eterno, erano stati accolti nell’Arca. Un impegno non da poco; un impegno, però, che avrebbe assicurato la sopravvivenza del Creato!
Già da questa immagine scaturisce chiaro il sentimento che costituì l’anima dell’Arca di Noè, il miracolo della sua salvezza.
Da un punto di vista logico, infatti, l‘Arca, una fragile costruzione di legno, come avrebbe potuto sostenere la furia degli elementi, il crollo delle dighe?
Ma non è la robustezza materiale dell’Arca che salva l’umanità, bensì la fede, l’armonia, la pace e l’amore che regnano al suo interno: sentimenti che avrebbero dato all’Arca, e a coloro che vi erano stati accolti, quella saldezza morale che avrebbe permesso il superamento di tutti gli ostacoli, di tutte le difficoltà.
Quando invece la civiltà e il progresso si pongono come scopo non il raggiungimento e il rafforzamento della solidarietà, della concordia, dell’amore e della pace, ma la concorrenza e la sopraffazione fra gli individui, fra le nazioni, fra i popoli, tale situazione rischia sempre di portare, come conclusione, al “diluvio” e alla distruzione del Creato e dell’umanità intera, sia essa decretata dal Signore, sia essa provocata dal comportamento stesso dell’uomo.
L’intelligenza e la sapienza, ambedue di origine divina, se invece di essere dedicate al conseguimento del bene, secondo la volontà del Signore sono usate per sviluppare le conoscenze scientifiche al solo scopo di arricchirsi o, peggio, di sopraffare il debole e l’indifeso, portano inevitabilmente all’odio, alla violenza, alla ribellione.
Dobbiamo allora considerare soltanto con pessimismo il progresso scientifico?
Certamente no, quando diviene un mezzo per aiutare l’umanità a progredire! E al di sopra del “diluvio” degli odi e delle rivalità, ci rimane sempre la speranza di un rifugio, di un’altra Arca: l’Arca della Torà, dell’insegnamento divino, che porta la pace dello spirito, il desiderio di aiutare gli altri, così come hanno fatto con insuperabile abnegazione Noè e i suoi figli.
Un’Arca che, proiettata nel futuro, ci dà l’immagine simbolica di un mondo diverso. Nell’Arca, nella convivenza pacifica di uomini e animali in cui l’uomo, Noè, e i suoi figli, si dedicano alla cura degli animali in loro custodia, così come Dio voleva quando aveva affidato la cura degli animali a Adamo subito dopo la creazione, noi vediamo la realizzazione, l’avverarsi dell’Era messianica, quella in cui “il lupo e l’agnello pascoleranno insieme… e un fanciullo li condurrà” (Isaia 11,6).
Di Elia Kopciowski
(Foto: Simon de Myle L’arca di Noé sul Monte Ararat)