Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò
Non c’è nulla nella storia come questa capacità ebraica di viaggiare, di andare avanti, accompagnati solo dalla parola divina, dalla promessa, dalla chiamata, dalla fede in una destinazione finale. È così che è iniziata la storia ebraica, con la chiamata di Dio ad Abramo a lasciare la sua terra, il suo luogo di nascita e la casa di suo padre (Genesi 12:1). È così che la storia ebraica è continuata per la maggior parte dei quattromila anni.
Proprio alla fine del libro di Shemot, c’è una difficoltà testuale così lieve che è facile non notarla, eppure – secondo l’interpretazione di Rashi – contiene uno dei grandi indizi sulla natura dell’identità ebraica: è una testimonianza commovente della sfida unica che comporta l’essere ebreo.
Innanzitutto, lo sfondo. Il Tabernacolo è finalmente completo. La sua costruzione ha richiesto molti capitoli per essere raccontata. Nessun altro evento degli anni del deserto è rappresentato in modo così dettagliato. Ora, il primo di Nissan, esattamente un anno dopo che Mosè aveva detto al popolo di iniziare i preparativi per l’Esodo, egli assembla le travi e i rivestimenti e mette a posto gli arredi e gli utensili. C’è un parallelismo inequivocabile tra le parole che la Torà usa per descrivere il completamento dell’opera da parte di Mosè e quelle che usa per descrivere Dio nel settimo giorno della Creazione:
E Dio terminò [vayechal] il settimo giorno l’opera [melachto] che aveva fatto. (Genesi 2:2-3)
E Mosè terminò [vayechal] l’opera [hamelachah]. (Esodo 40:34)
Il versetto successivo in Pekudei afferma il risultato: Allora la nube coprì la Tenda del convegno e la gloria del Signore riempì il Tabernacolo.
Il significato è chiaro e rivoluzionario. La creazione del santuario da parte degli israeliti vuole rappresentare un parallelo umano alla creazione divina dell’universo. Creando il mondo, Dio ha creato una casa per l’umanità. Creando il Tabernacolo, l’umanità ha creato una casa per Dio.
Da una prospettiva umana, Dio riempie lo spazio che noi creiamo per la sua presenza. La sua gloria esiste dove noi rinunciamo alla nostra. L’immenso dettaglio della costruzione ci dice che gli israeliti hanno obbedito alle istruzioni di Dio piuttosto che improvvisarne di proprie. L’ambito specifico chiamato “il santo” è il luogo in cui incontriamo Dio alle sue condizioni, non alle nostre. Ma anche questo è il modo in cui Dio conferisce dignità al genere umano. Siamo noi a costruire la sua casa, perché Lui possa riempire ciò che abbiamo fatto. Per dirla con le parole di un famoso film: “Se la costruisci, lui verrà”.
Bereshit inizia con Dio che crea il cosmo. Shemot termina con gli esseri umani che creano un microcosmo, un universo in miniatura e simbolico. Così l’intera narrazione della Genesi-Esodo è un unico vasto arco che inizia e finisce con il concetto di spazio riempito da Dio, con questa differenza: all’inizio il lavoro è fatto da Dio-Creatore. Alla fine è fatto dall’uomo e dalla donna, i creatori. Tutta l’intricata storia è stata una storia con un tema generale: il trasferimento del potere e della responsabilità della creazione dal cielo alla terra, da Dio all’immagine di Dio chiamata uomo.
Tuttavia, gli ultimi versetti del libro ci parlano della relazione tra la “Nube di Gloria” e il Tabernacolo. Il Tabernacolo, ricordiamo, non era una struttura fissa. Era fatto in modo da essere trasportabile. Poteva essere smontato rapidamente e le sue parti trasportate, mentre gli Israeliti si dirigevano verso la tappa successiva del loro viaggio. Quando giunse il momento in cui gli israeliti si mossero, la Nube si spostò dal suo luogo di riposo nella Tenda di riunione a una posizione esterna all’accampamento, segnalando la direzione che i figli di Israele dovevano prendere.
Ecco come lo descrive la Torà: “Quando la Nube si sollevava da sopra il Tabernacolo, gli Israeliti si mettevano in viaggio, e questo avvenne in tutti i loro spostamenti. Se la Nube non si sollevava, non partivano fino al giorno in cui si fosse alzata. Poiché la Nube del Signore era sopra il Tabernacolo di giorno e il fuoco era nella Nube di notte, sotto gli occhi di tutta la casa d’Israele durante tutte le tappe dei loro spostamenti. (Esodo 40:36-38)
C’è una piccola ma significativa differenza tra le due interpretazioni della frase bechol mas’ehem, “in tutti i loro viaggi”.
Nel primo caso le parole vanno prese alla lettera. Quando la nube si sollevò e avanzò, gli israeliti seppero che stavano per mettersi in viaggio. Tuttavia, nella seconda interpretazione non possono essere prese alla lettera. La nube non era sopra il Tabernacolo durante tutti i loro viaggi. Al contrario: era lì solo quando smisero di viaggiare e si accamparono. Durante il viaggio, la nube proseguiva.
Perché questo? Perché gli dei del mondo antico erano dei di un luogo: Sumeria, Memphis, Moab, Edom. Avevano un dominio specifico. La teologia era legata alla geografia. Qui, in questo luogo sacro, reso magnifico da una ziggurat o da un tempio, gli dèi della tribù o dello Stato governavano ed esercitavano il potere sulla città o sull’impero. Quando il faraone dice a Mosè: “Chi è il Signore perché io gli obbedisca e lasci andare Israele? Io non conosco il Signore e non lascerò andare Israele” (Esodo 5:2), intende dire: “Qui sono io il potere sovrano. L’Egitto ha i suoi dèi. All’interno dei suoi confini, essi sono i soli a governare e hanno delegato questo potere a me, il loro rappresentante terreno. Ci sarà pure un Dio di Israele, ma il suo potere e la sua autorità non si estendono all’Egitto”. La sovranità divina è come la sovranità politica. Ha dei confini. Ha una collocazione spaziale. È delimitata da un luogo sulla mappa.
Con Israele rinasce un’idea vecchia e nuova (che risale, secondo la Torà, ad Adamo, Caino, Abramo e Giacobbe, i quali hanno tutti sofferto l’esilio): che Dio, essendo ovunque, può essere trovato in ogni luogo. È quello che Morris Berman (storico e critico sociale americano 1944-…) chiama il “Dio errante”. Come nel deserto la sua nube di gloria accompagnò gli israeliti nel loro lungo e tortuoso cammino, così, dicevano i rabbini, “quando Israele andò in esilio, la Presenza divina andò con loro”Dio non può essere confinato in un luogo specifico.
Anche in Israele, la Sua presenza tra il popolo dipendeva dalla loro obbedienza alla Sua parola. Per questo non esiste una sicurezza fisica, la certezza di essere qui e di rimanere qui. Come disse Davide: Quando mi sentivo sicuro, dicevo, “Non sarò mai scosso”. … ma quando hai nascosto il tuo volto, sono rimasto sgomento. (Salmo 30)
La sicurezza non appartiene al luogo ma alla persona, non a uno spazio fisico sulla superficie della terra ma a uno spazio spirituale nel cuore umano.
Se c’è qualcosa che è responsabile dell’impareggiabile forza dell’identità ebraica durante i lunghi secoli in cui gli ebrei sono stati sparsi per il mondo, una minoranza, è il concetto a cui gli ebrei e l’ebraismo hanno dato il nome di galut, esilio. Unici tra le nazioni del mondo antico o moderno, con poche eccezioni non si convertirono alla fede dominante né si assimilarono alla cultura dominante. L’unica ragione è che non hanno mai scambiato un luogo particolare per casa, una posizione temporanea per la destinazione finale. “Ora siamo qui”, dicono all’inizio del servizio del Seder, “ma l’anno prossimo, nella terra di Israele”.
Secondo la legge ebraica, chi affitta una casa fuori da Israele è obbligato ad apporre una mezuzà solo dopo trenta giorni. Fino a quel momento non è ancora considerata un luogo di abitazione. Solo dopo trenta giorni diventa, di fatto, una casa.
In Israele, invece, chi affitta una casa è immediatamente obbligato a mettere una mezuzà, mishum yishuv Eretz Yisrael, “a causa del comando di stabilirsi in Israele”.
Fuori da Israele, la vita ebraica è una via, un sentiero, un percorso. Anche un accampamento, un luogo di riposo, è chiamato viaggio.
In questo contesto, un dettaglio spicca nel lungo elenco di istruzioni sul Tabernacolo. Si tratta dell’Arca, nella quale erano custodite le Tavole di pietra che Mosè aveva portato giù dalla montagna, ricordi permanenti dell’alleanza di Dio con Israele. Sul lato dell’Arca c’erano degli anelli d’oro, due per lato, all’interno dei quali erano inseriti dei pali o delle stanghe, in modo da poter trasportare l’Arca quando sarebbe arrivato il momento per gli israeliti di spostarsi (Esodo 25:12-14). La Torà aggiunge la seguente specifica: I pali devono rimanere negli anelli di quest’Arca; non devono essere rimossi. (Esodo 25:15)
Perché? Rabbi Samson Raphael Hirsch spiegò che l’Arca doveva essere sempre pronta quando gli israeliti dovevano viaggiare. Perché lo stesso non valeva per gli altri oggetti del Tabernacolo, come l’altare e la menorah? Per dimostrare in modo supremo, disse Hirsch, che la Torà non era limitata a un solo luogo. E così fu. La Torà divenne, nella famosa frase di Heinrich Heine, “la patria portatile dell’ebreo”.
Nel corso della storia gli ebrei si sono trovati sparsi e dispersi tra le nazioni, senza mai sapere quando sarebbero stati costretti a partire e a trovare una nuova casa. Solo nel XV secolo, gli ebrei furono espulsi da Vienna e Linz nel 1421, da Colonia nel 1424, da Augusta nel 1439, dalla Baviera nel 1442, dalla Moravia nel 1454, da Perugia nel 1485, da Vicenza nel 1486, da Parma nel 1488, da Milano e Lucca nel 1489, dalla Spagna nel 1492 e dal Portogallo nel 1497.
Come sono riusciti a sopravvivere, con la loro identità intatta e la loro fede, sebbene messa a dura prova, ancora forte? Perché credevano che Dio fosse con loro, anche in esilio. Perché erano sostenuti dalla frase dei Salmi (23,4): “Anche se camminassi nella valle dell’ombra della morte, non temerei alcun male, perché Tu sei con me”. Perché avevano ancora la Torà, l’alleanza indissolubile di Dio, con la sua promessa che “Nonostante questo, quando saranno nel paese dei loro nemici, non li respingerò né li aborrirò in modo da distruggerli completamente, rompendo la mia alleanza con loro. Io sono il Signore loro Dio” (Levitico 26:44). Perché era un popolo abituato a viaggiare, sapendo che anche un accampamento è solo una dimora temporanea.
Emil Fackenheim, illustre teologo, era un sopravvissuto all’Olocausto. Nato ad Halle, in Germania, nel 1916, fu arrestato durante la Notte dei Cristalli e internato nel campo di concentramento di Sachsenhausen, da cui alla fine riuscì a fuggire. Ha ricordato una foto appesa nella casa dei suoi genitori quando era bambino: Non era il nostro genere di foto… perché ciò che ritraeva non era un’esperienza ebraica tedesca: erano ebrei in fuga da un pogrom. Tuttavia mi commosse profondamente e lo ricordo bene. Gli ebrei in fuga nel quadro erano vecchi barbuti, terrorizzati, ma non tanto da abbandonare ciò che hanno di più prezioso. Nella visione degli antisemiti questi ebrei stringerebbero senza dubbio borse d’oro in mani. In realtà, ognuno di loro portava con sé un rotolo della Torà. (Emil Fackenheim, What Is Judaism? (New York: Macmillan, 1987), p. 60).
Non c’è nulla nella storia come questa capacità ebraica di viaggiare, di andare avanti, accompagnati solo dalla parola divina, dalla promessa, dalla chiamata, dalla fede in una destinazione finale. È così che è iniziata la storia ebraica, con la chiamata di Dio ad Abramo a lasciare la sua terra, il suo luogo di nascita e la casa di suo padre (Genesi 12:1). È così che la storia ebraica è continuata per la maggior parte dei quattromila anni. Al di fuori di Israele, l’unica sicurezza degli ebrei era la fede stessa e la sua testimonianza eterna nella Torà, la lettera d’amore di Dio al popolo ebraico, il suo legame indissolubile. E durante tutti questi secoli, sebbene fossero derisi come “l’ebreo errante”, sono diventati una testimonianza vivente della possibilità della fede in mezzo all’incertezza e del Dio che ha reso possibile questa fede, il Dio di ogni luogo, simboleggiato dal Tabernacolo, la sua casa portatile.
E quando giunse il momento per gli ebrei di intraprendere un altro viaggio, verso la terra promessa per la prima volta con Abramo e verso la quale Mosè trascorse la sua vita di guida, lo fecero senza esitazioni. Le scene di congedo si sono ripetute più volte negli anni tra il 1948-51, quando una dopo l’altra le comunità ebraiche nelle terre arabe – Maghreb, Iraq, Yemen – hanno detto addio alle case in cui avevano vissuto per secoli e sono partite per Israele. Anche loro sapevano che quelle case erano semplici accampamenti, tappe di un viaggio la cui destinazione finale era altrove.
Nel 1990, il Dalai Lama, che viveva in esilio dal Tibet dal 1951, invitò un gruppo di studiosi ebrei a fargli visita nell’India settentrionale. Rendendosi conto che lui e i suoi seguaci avrebbero potuto trascorrere molti anni in esilio prima di poter rientrare, aveva riflettuto sulla domanda: come si sostiene uno stile di vita lontano da casa? Si rese conto che un gruppo più di tutti gli altri aveva affrontato e risolto quel problema: gli ebrei. Così si rivolse a loro per un consiglio.
Se la risposta ebraica – che ha a che fare con la fede nel Dio della storia – sia applicabile al buddismo è un punto irrilevante, ma l’incontro è stato comunque affascinante, perché ha mostrato che persino il Dalai Lama, leader di un gruppo molto lontano dall’ebraismo, ha riconosciuto che c’è qualcosa di ineguagliabile nella capacità ebraica di rimanere fedele ai termini della sua esistenza nonostante la dispersione, senza mai perdere la fede nella convinzione che un giorno gli esuli sarebbero tornati nella loro terra.
Come e perché ciò sia avvenuto è contenuto in quelle semplici parole di Rashi alla fine dell’Esodo. Anche quando erano a riposo, gli ebrei sapevano che un giorno avrebbero dovuto sradicare le loro tende, smantellare il Tabernacolo e spostarsi. “Anche un accampamento è chiamato viaggio”. Un popolo che non smette mai di viaggiare è un popolo che non diventa mai vecchio, stantio o compiacente. Può vivere nel presente, ma è sempre consapevole del passato lontano e del futuro che si prospetta. Ma ha promesse da mantenere e chilometri da percorrere prima di dormire.
Redazione rabbi Jonathan Sacks zzl
(Foto: The Tabernacle in the Wilderness, illustration from the 1890 Holman Bible)