Parashat Reè. La Tzedakà, la legge ebraica che dà dignità all’uomo

Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò
Ascoltate queste storie. Dietro le quali si nasconde una straordinaria visione della natura dell’etica ebraica:

Storia 1. Rabbi Abba era solito legare il denaro nella sua sciarpa, metterlo sulla schiena e destinarlo ai poveri. (Ketubot 67b)

Storia 2 – Ogni giorno Mar Oukva depositava quattro monete davanti la porta semiaperta del suo povero vicino. Un giorno, disse tra sé l’uomo “vado a vedere chi mi sta facendo così tanta gentilezza”. Il pover’uomo vide Mar Oukva e sua moglie depositare il denaro e allontanarsi così li inseguì, ma fuggirono e si nascosero.
Perché lo fecero? Perché volevano restare nell’anonimato, così gli era stato insegnato di fare. È “meglio gettarsi in una fornace ardente piuttosto che svergognare il prossimo in pubblico”. (Ketubot 67b)

Storia 3. Quando Rabbi Jonah vedeva un membro di una buona famiglia che aveva perso il suo denaro e si vergognava di accettare la carità, andava a dirgli: “Ho sentito dire che ti è arrivata un’eredità da una città al di là del mare. Ecco un oggetto di un certo valore. Vendilo e usane il ricavato. Quando sarai più ricco, mi ripagherai”. Non appena l’uomo lo prendeva, Rabbi Jonah diceva: “È tuo e puoi tenerlo come regalo”. (Vayikra Rabbah 34:1)

Queste storie sono tutte profondamente legate alla mitzvah della tzedakah, la cui fonte si trova nella parashà di questa settimana: Se qualcuno è povero tra i tuoi concittadini israeliti, in una qualsiasi delle città del paese che il Signore tuo Dio ti sta dando, non essere duro di cuore e non avere il pugno di ferro nei suoi confronti. Anzi, siate aperti e prestate loro liberamente ciò di cui hanno bisogno. (Deuteronomio 15:7-8)

Date loro generosamente e fatelo senza rancore; per questo il Signore vostro Dio vi benedirà in tutto il vostro lavoro e in tutto ciò che farete. Ci saranno sempre dei poveri nel paese. Perciò vi ordino di essere aperti verso i vostri concittadini israeliti che sono poveri e bisognosi nel vostro paese”. (Deuteronomio 15:10-11)

Abbiamo qui un programma unico e notevole per l’eliminazione della povertà.
Il primo fatto straordinario delle leggi della tzedakà così come sono articolate nella Tradizione Orale è il concetto stesso. Tzedakà non significa “carità”. Lo vediamo subito sotto forma di una legge inconcepibile in qualsiasi altro sistema morale: “Chi non vuole donare la tzedakà o donare meno di quanto sia appropriato può essere obbligato a farlo da un tribunale ebraico”. (Maimonide, Leggi sui doni ai poveri, 7:10) La carità è sempre volontaria. La tzedakà è obbligatoria. Pertanto tzedakà non significa carità. L’equivalente più vicino è giustizia sociale.

Il secondo è il principio evidente nelle tre storie precedenti. La povertà nell’ebraismo non è concepita solo in termini materiali: ai poveri mancano i mezzi di sostentamento. È concepita anche in termini psicologici. La povertà umilia. Toglie alle persone la dignità. Le rende dipendenti dagli altri, privandole così dell’indipendenza che la Torà considera essenziale per il rispetto di sé.

Questa profonda intuizione psicologica è espressa in modo eloquente nel terzo paragrafo della preghiera dopo i pasti: “Ti preghiamo, o Signore nostro Dio, di non farci dipendere dai doni o dai prestiti di altre persone, ma solo dalla tua mano piena, aperta, santa e generosa, affinché non soffriamo né vergogna né umiliazione per sempre”.

Di conseguenza, la legge ebraica si concentra non solo su quanto dobbiamo dare, ma anche sul modo in cui lo facciamo. Idealmente, il donatore non dovrebbe sapere a chi sta dando (storia 1), né il ricevente deve sapere da chi sta ricevendo (storia 2). La terza storia esemplifica un altro principio: Se un povero non vuole accettare la tzedaaà, dobbiamo praticare una forma di inganno [benevolo] e dargliela sotto spoglie di prestito. (Leggi sui doni ai poveri 7:9)

Maimonide riassunse così il principio generale: Chi fa la carità al povero con cattiva grazia e con occhi distratti ha perso tutto il merito della sua azione, anche se gli dà mille pezzi d’oro. Dovrebbe fare la carità con buona grazia e con gioia e dovrebbe solidarizzare con lui nella sua situazione, come è detto: “Non ho forse pianto per chi è in difficoltà? L’anima mia non si è forse addolorata per i poveri?” (Giobbe 30:25). Leggi sui doni ai poveri, 10:4

Questa è la logica che sta alla base di due leggi altrimenti inspiegabili.
La prima è: Anche un povero che dipende dalla tzedakà è obbligato a darla. (Leggi sui doni ai poveri 7:5) La legge sembra assurda. Perché dovremmo dare denaro ai poveri affinché essi possano elargirlo ad altre persone ingenti? Ha senso solo in base a questo presupposto, cioè che la donazione è essenziale per la dignità umana e la tzedakà è l’obbligo di garantire a tutti questa stessa dignità.

La seconda è una famosa sentenza di Maimonide: Il più alto grado di carità, non superato da nessuno, è quando una persona assiste un ebreo povero fornendogli un dono o un prestito o accettandolo in una società d’affari o aiutandolo a trovare un lavoro – in una parola mettendolo in una situazione in cui può fare a meno dell’aiuto di altre persone. (Leggi sui doni ai poveri, 10:7)

Dare un lavoro a qualcuno o farlo diventare vostro socio non è affatto considerato un atto di carità. Non vi costa nulla. Ma questo serve a dimostrare che tzedakà non significa carità. Significa dare alle persone i mezzi per vivere una vita dignitosa, e nel sistema di valori ebraico qualsiasi forma di occupazione è più dignitosa della dipendenza.

In questa sentenza di Maimonide del XII secolo c’è il principio che Muhammad Yunus (economista e banchiere bengalese 1940-…) ha riscoperto ai nostri giorni e per il quale è stato insignito del Premio Nobel: l’idea del microcredito che consente ai poveri di avviare piccole imprese. È un’idea molto potente.

A differenza di molti altri sistemi religiosi, l’ebraismo si è rifiutato di romanticizzare la povertà o di anestetizzare il suo dolore. La fede non è ciò che Karl Marx chiamava “l’oppio dei popoli”. I rabbini si rifiutano di vedere la povertà come uno stato benedetto, un’afflizione da affrontare con accettazione e grazia. Al contrario, i rabbini la definivano “una specie di morte” e “peggiore di cinquanta piaghe”. Dicevano: “Nulla è più difficile da sopportare della povertà, perché colui che è schiacciato dalla povertà è come uno a cui si aggrappano tutti i problemi del mondo e su cui sono scese tutte le maledizioni del Deuteronomio. “Se tutti gli altri problemi fossero messi da una parte e la povertà dall’altra, la povertà li supererebbe tutti”.

Maimonide andò al cuore della questione quando disse: “Il benessere dell’anima può essere ottenuto solo dopo che quello del corpo è stato assicurato”. (Guida per i perplessi, 3:27)

La povertà non è uno stato nobile. Non si possono raggiungere vette spirituali se non si ha da mangiare, se non si ha un tetto sopra la testa, se non si ha accesso a cure mediche o se si è assillati da preoccupazioni finanziarie. Non conosco un approccio più sano alla povertà, al welfare e alla giustizia sociale di quello dell’ebraismo. Insuperato ai suoi tempi, rimane ancora oggi il punto di riferimento di una società dignitosa.

Redazione Rabbi Jonathan Sacks zzl