Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò
Genesi termina con una nota quasi serena. Giacobbe ha ritrovato il figlio perduto da tempo. La famiglia è stata riunita. Giuseppe ha perdonato i suoi fratelli. Sotto la sua protezione e influenza la famiglia si è stabilita a Goshen, una delle regioni più prospere dell’Egitto. Ora hanno case, proprietà, cibo, la protezione di Giuseppe e il favore del Faraone. Deve essere sembrato uno dei momenti d’oro della storia della famiglia di Abramo.
Poi, come è successo tante volte da allora, “Sorse un nuovo Faraone che non conosceva Giuseppe”. C’è stato un cambiamento di clima politico. La famiglia cadde in disgrazia. Il Faraone disse ai suoi consiglieri: “Guardate, il popolo israelita sta diventando troppo numeroso e forte per noi” – la prima volta che la parola “popolo” è usata nella Torà con riferimento ai figli di Israele. “Trattiamoli con accortezza, affinché non crescano”. E così entra in funzione tutto il meccanismo dell’oppressione: il lavoro forzato che si trasforma in schiavitù che diventa tentativo di genocidio.
La storia è scolpita nella nostra memoria. Lo raccontiamo ogni anno, e in sintesi nelle nostre preghiere, ogni giorno. Fa parte di ciò che significa essere un ebreo. Eppure c’è una frase che traspare dal racconto: «Ma quanto più erano oppressi, tanto più crescevano e tanto più si diffondevano». Questo, non meno dell’oppressione stessa, fa parte di ciò che significa essere ebreo. Più le cose peggiorano, più diventiamo forti. Gli ebrei sono le persone che non solo sopravvivono ma prosperano nelle avversità.
La storia ebraica non è semplicemente una storia di ebrei che sopportano catastrofi che avrebbero potuto segnare la fine di gruppi meno tenaci. Dopo ogni disastro, gli ebrei si sono rinnovati. Hanno scoperto una riserva di spirito fino ad allora nascosta, che ha alimentato nuove forme di autoespressione collettiva come portatori del messaggio di Dio al mondo.
Ogni tragedia generava nuova creatività. Dopo la divisione del regno seguita alla morte di Salomone vennero i grandi profeti letterari: Amos e Osea, Isaia e Geremia. Dalla distruzione del Primo Tempio e dall’esilio babilonese venne il rinnovamento della Torà nella vita della nazione, a partire da Ezechiele e culminando nel vasto programma educativo riportato in Israele da Esdra e Neemia. Dalla distruzione del Secondo Tempio venne l’immensa letteratura del giudaismo rabbinico, fino ad allora conservata per lo più sotto forma di tradizione orale: Mishnah, Midrash e Gemara. Dalle Crociate nacquero i Hassidei Ashkenaz, la scuola di pietà e spiritualità nordeuropea. Dopo l’espulsione spagnola venne il circolo mistico di Tzefat: la Cabala lurianica e tutto ciò che si ispirava alla poesia e alla preghiera. Dalla persecuzione e dalla povertà dell’Europa dell’Est è nato il movimento chassidico e la sua rinascita dell’ebraismo di base, attraverso un flusso apparentemente infinito di storie e canzoni. E dalla peggiore di tutte le tragedie in termini umani, l’Olocausto, venne la rinascita dello Stato di Israele, la più grande affermazione di vita ebraica collettiva in più di duemila anni.
È risaputo che l’ideogramma cinese per “crisi” significa anche “opportunità”. Ogni civiltà che può vedere la benedizione all’interno della maledizione, il frammento di luce nel cuore dell’oscurità, ha in sé la capacità di resistere.
In ebraico va meglio. La parola per crisi, mashber, significa anche “una sedia per il parto”. Inscritta nella semantica della coscienza ebraica c’è l’idea che il dolore dei tempi duri, sia una forma collettiva delle contrazioni di una donna che partorisce. Qualcosa di nuovo sta nascendo. Questa è la mentalità di un popolo di cui si può dire che «più erano oppressi, più crescevano e più si diffondevano».
Da dove viene questa capacità ebraica di trasformare la debolezza in forza, l’avversità in vantaggio, l’oscurità in luce? Risale al momento in cui il nostro popolo ha ricevuto il suo nome, Israele. Fu allora, mentre Giacobbe lottava da solo di notte con un angelo, che all’alba il suo avversario lo pregò di lasciarlo andare. “Non ti lascerò andare finché non mi benedirai”, disse Giacobbe. (Bereshit 32:27) Questa è la fonte della nostra peculiare, distintiva ostinazione. Potremmo aver litigato tutta la notte. Potremmo essere stanchi e sull’orlo dell’esaurimento. Potremmo ritrovarci a zoppicare, come fece Giacobbe. Tuttavia non lasceremo andare il nostro avversario finché non avremo tratto una benedizione dall’incontro. Questa si è rivelata una concessione non minore e temporanea. È diventata la base del suo nuovo nome e della nostra identità. Israele, il popolo che “lottò con Dio e con gli uomini e vinse”, è la nazione che diventa più forte a ogni conflitto e catastrofe.
Mi è tornata in mente questa insolita caratteristica nazionale un articolo apparso sulla stampa britannica nell’ottobre 2015. Israele all’epoca soffriva di un’ondata di attacchi terroristici che videro palestinesi uccidere civili innocenti nelle strade e nelle stazioni degli autobus di tutto il paese. Iniziava con queste parole: “Israele è un paese sorprendente, pieno di energia e fiducia, una calamita per il talento e gli investimenti, un calderone di innovazione”. Ha parlato della sua eccellenza di livello mondiale nei settori aerospaziale, tecnologia pulita, sistemi di irrigazione, software, sicurezza informatica, prodotti farmaceutici e sistemi di difesa.
“Tutto questo”, ha proseguito lo scrittore, “deriva dal cervello, perché Israele non ha risorse naturali ed è circondato da vicini ostili”. Il paese è la prova vivente del “potere dell’istruzione tecnica, dell’immigrazione e dei benefici del giusto tipo di servizio militare”. Eppure questo non può essere tutto, dal momento che gli ebrei hanno costantemente superato i propri limiti, ovunque si trovassero e ogni volta che ne hanno avuto la possibilità. Passa attraverso le varie spiegazioni suggerite: la forza delle famiglie ebree, la loro passione per l’istruzione, il desiderio di lavoro autonomo, l’assunzione di rischi come stile di vita e persino la storia antica. Il Levante ospitò le prime società agricole del mondo e i primi commercianti. Forse, allora, la disposizione all’impresa era scritta, migliaia di anni fa, nel DNA ebraico. Alla fine, però, conclude che ha a che fare con “cultura e comunità”.
Un elemento chiave di quella cultura è in relazione con la risposta ebraica alla crisi. Ad ogni circostanza avversa, coloro che hanno ereditato la sensibilità di Giacobbe insistono: “Non ti lascerò andare finché non mi benedirai”. (Bereshit 32:27) È così che gli ebrei, incontrando il Neghev, trovarono il modo di far fiorire il deserto. Vedendo un paesaggio arido e trascurato altrove, piantarono alberi e foreste. Di fronte a eserciti ostili su tutti i loro confini, hanno sviluppato tecnologie militari che hanno poi trasformato in uso pacifico. La guerra e il terrore li hanno costretti a sviluppare competenze mediche e abilità leader a livello mondiale nell’affrontare le conseguenze del trauma. Hanno trovato il modo di trasformare ogni maledizione in una benedizione.
Lo storico Paul Johnson (1928-2023) lo ha espresso in modo eloquente: “Per oltre 4000 anni gli ebrei si sono dimostrati non solo grandi sopravvissuti, ma straordinariamente abili nell’adattarsi alle società in cui il destino li aveva spinti e nel raccogliere qualsiasi conforto umano avessero da offrire. Nessun popolo è stato più fertile nell’arricchire la povertà o nell’umanizzare la ricchezza, o nel trasformare la sfortuna in un conto creativo”.
C’è qualcosa di profondamente spirituale oltre che di concretamente pratico in questa capacità di trasformare i brutti momenti della vita in uno stimolo alla creatività. È come se, nel profondo di noi, ci fosse una voce che dice: “Sei in questa situazione, per quanto brutta sia, perché c’è un compito da svolgere, un’abilità da acquisire, una forza da sviluppare, una lezione da imparare, un male da riscattare, un frammento di luce da salvare, una benedizione da scoprire, poiché ti ho scelto per testimoniare all’umanità che dalla sofferenza possono derivare grandi benedizioni, se lotti con essa abbastanza a lungo e con fede incrollabile.
In un’epoca in cui le persone violente commettono atti di brutalità in nome del Dio della compassione, il popolo di Israele sta dimostrando quotidianamente che questa non è la via del Dio di Abramo, il Dio della vita e della santità della vita. E ogni volta che noi che facciamo parte di quel popolo ci perdiamo d’animo e ci chiediamo quando mai finirà, dovremmo ricordare le parole: “Più erano oppressi, più crescevano e più si diffondevano”. Un popolo di cui si può dire che può essere ferito, ma non potrà mai essere sconfitto. La via di Dio è la via della vita.
Di rav Jonathan Sacks zl