Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò
Tra i sacrifici descritti nella Parashà di questa settimana c’è il korban todà, l’offerta di ringraziamento: “Se (una persona) offrirà [il sacrificio] come offerta di ringraziamento, allora insieme a questa offerta di ringraziamento offrirà azzime impastate con olio, gallette non lievitate unte con olio e focacce di fior di farina ben impastata e mescolata con olio.” (Levitico 7:12)
Anche se siamo senza sacrifici da quasi duemila anni, una traccia dell’offerta di ringraziamento sopravvive fino ad oggi, sotto forma della benedizione nota come Hagomel: “Colui che elargisce il bene anche agli indegni”, recitata in sinagoga, al momento della lettura della Torà, da chi è sopravvissuto a una situazione pericolosa.
Cosa costituisce una situazione pericolosa? I Maestri (Berachot 54b) trovarono la risposta nel Salmo 107, un canto sul tema del ringraziamento, che inizia con le parole più note della gratitudine religiosa nell’ebraismo: “Hodu la-Shem ki tov, ki le-olam chasdo”, “Rendete grazie al Signore perché è buono, perché la Sua bontà dura per sempre” (Salmo 107).
Il salmo stesso descrive quattro situazioni specifiche:
1. Attraversamento del mare:
Alcuni scesero in mare su navi; erano mercanti sulle grandi acque… Salivano fino al cielo e scendevano negli abissi; nella loro angoscia il coraggio veniva meno… Allora gridarono al Signore nella loro angoscia, ed Egli li trasse fuori dalle loro difficoltà. Calmò la tempesta in una brezza; le onde del mare si acquietarono.
2. Attraversamento del deserto:
Alcuni vagavano in terre desertiche, senza trovare la via per una città dove stabilirsi. Erano affamati e assetati, la loro possibilità di vita stava venendo meno. Allora gridarono al Signore nella loro angoscia, ed Egli li liberò dalle loro difficoltà.
3. Guarigione da una grave malattia:
Rifiutavano ogni cibo e si avvicinavano alle porte della morte. Allora gridarono al Signore nella loro angoscia, ed Egli li salvò dalle loro difficoltà. Mandò la Sua parola e li guarì; li liberò dalla tomba.
4. Liberazione dalla prigionia:
Alcuni sedevano nelle tenebre e nell’ombra più cupa, prigionieri che soffrivano in catene di ferro… Allora gridarono al Signore nella loro angoscia, ed Egli li salvò dalle loro difficoltà. Li fece uscire dalle tenebre e dall’ombra più cupa e spezzò le loro catene. (Berachot 54b)
Ancora oggi, queste sono le situazioni di pericolo (oggi molti includono anche il volo aereo oltre al viaggio per mare) per le quali si recita l’Hagomel quando si è scampati indenni.
Nel suo libro A Rumour of Angels, il sociologo americano Peter Berger (1929-2017) descrive ciò che chiama “segnali di trascendenza” – fenomeni all’interno della condizione umana che indicano qualcosa al di là. Tra questi include l’umorismo e la speranza. Non c’è nulla nella natura che spieghi la nostra capacità di riformulare situazioni dolorose in modo da poterci ridere sopra; né c’è nulla che spieghi la capacità umana di trovare un senso persino nelle profondità della sofferenza.
Questi non sono, nel senso classico, prove dell’esistenza di Dio, ma sono evidenze esperienziali. Ci dicono che non siamo aggregazioni casuali di geni egoisti che si riproducono ciecamente. I nostri corpi possono essere prodotti della natura (“polvere sei e alla polvere ritornerai”), ma le nostre menti, i nostri pensieri, le nostre emozioni – tutto ciò che è indicato con la parola “anima” – non lo sono. C’è qualcosa dentro di noi che tende verso qualcosa oltre noi: l’anima dell’universo, il Divino “Tu” a cui ci rivolgiamo nella preghiera, e al quale i nostri antenati, quando esisteva il Tempio, offrivano i loro sacrifici.
Anche se Berger non lo include, uno dei “segnali di trascendenza” è sicuramente il desiderio umano istintivo di rendere grazie. Spesso è semplicemente umano. Qualcuno ci ha fatto un favore, ci ha fatto un dono, ci ha consolato nel dolore, o ci ha salvati dal pericolo. Sentiamo di dovergli qualcosa. Quel “qualcosa” è todà, la parola ebraica che significa sia “riconoscimento” che “ringraziamento”.
Ma spesso sentiamo qualcosa di più. Non è solo al pilota che vogliamo dire grazie quando atterriamo sani e salvi dopo un volo pericoloso; non solo al chirurgo, quando sopravviviamo a un’operazione; non solo al giudice o al politico, quando siamo liberati da prigionia o cattività. È come se una forza più grande fosse entrata in azione, come se la mano che muove i pezzi sulla scacchiera umana avesse pensato a noi; come se il cielo stesso fosse sceso in nostro aiuto.
Le compagnie di assicurazione tendono a definire le catastrofi naturali come “atti di Dio”. L’emozione umana fa l’opposto. Dio è nella buona notizia, nella sopravvivenza miracolosa, nella salvezza dalla catastrofe. Questo istinto – di offrire ringraziamento a una forza, una presenza, al di sopra delle circostanze naturali e dell’intervento umano – è esso stesso un segnale di trascendenza. Questo è ciò che un tempo veniva espresso con l’offerta di ringraziamento, e che ancora oggi viene espresso con la preghiera dell’Hagomel. Ma non è solo dicendo l’Hagomel che esprimiamo la nostra gratitudine.
Elaine mia moglie ed io eravamo in viaggio di nozze. Era estate, il sole splendeva, la spiaggia era splendida e il mare invitante. C’era solo un problema. Non sapevo nuotare. Ma osservando il mare, notai che vicino alla riva era davvero molto basso. C’erano persone a diverse centinaia di metri dalla spiaggia, eppure l’acqua arrivava solo alle loro ginocchia. Cosa poteva essere più sicuro – pensai – che camminare semplicemente in mare e fermarmi ben prima di perdere il contatto con il fondo.
Lo feci. Camminai per diverse centinaia di metri e sì, l’acqua arrivava solo alle ginocchia. Mi voltai e cominciai a tornare indietro. Con mia sorpresa e spavento, mi ritrovai improvvisamente sommerso dall’acqua. Evidentemente avevo camminato in un avvallamento nella sabbia. Non toccavo più. Provai a nuotare. Fallii. Era pericoloso. Non c’era nessuno vicino. Le persone che nuotavano erano molto lontane. Andai sotto, più volte. Alla quinta volta, capii che stavo annegando. La mia vita stava per finire. Che modo – pensai – di iniziare un viaggio di nozze.
Ovviamente qualcuno mi salvò, altrimenti non starei scrivendo queste righe. Ancora oggi non so chi fosse: a quel punto ero quasi incosciente. Tutto ciò che so è che deve avermi visto lottare. Nuotò fino a me, mi afferrò e mi portò in salvo. Da allora, le parole che diciamo ogni giorno al risveglio hanno per me un significato profondo: “Ti ringrazio, Dio vivente ed eterno, perché hai restituito la mia vita a me: grande è la Tua fedeltà.” Chiunque sia sopravvissuto a un grande pericolo sa cosa significa sentire, non solo sapere in astratto, che la vita è un dono di Dio, rinnovato ogni giorno.
La prima parola di questa preghiera, Modeh, proviene dalla stessa radice ebraica di Todah, “ringraziamento”. Così anche la parola Yehudi, “ebreo”. Abbiamo ricevuto questo nome dal quarto figlio di Giacobbe, Yehudà. Lui a sua volta ricevette il nome da Leah che, alla sua nascita, disse: “Questa volta ringrazierò [alcuni traducono: loderò] il Signore” (Genesi 29:35).
Essere ebrei significa offrire ringraziamento. Questo è il significato del nostro nome e il gesto costitutivo della nostra fede.
Ci sono stati ebrei che, dopo la Shoah, hanno cercato di definire l’identità ebraica in termini di sofferenza, vittimismo, sopravvivenza. Un teologo parlò di un 614º comandamento: “Non dare a Hitler una vittoria postuma.” Lo storico polacco Salo Baron (1895-1989) chiamò questa lettura della storia “lacrimosa”: una storia scritta con le lacrime. Io, per parte mia, non sono d’accordo. Sì, c’è stata sofferenza ebraica. Eppure se questo fosse stato tutto, gli ebrei non avrebbero fatto ciò che in realtà la maggior parte fece: trasmettere la propria identità ai figli come la loro eredità più preziosa.
Essere ebrei significa provare un senso di gratitudine; vedere la vita stessa come un dono; saper vivere la sofferenza senza esserne definiti; dare alla speranza la vittoria sulla paura. Essere ebrei significa offrire ringraziamento.
Redazione Rabbi Jonathan Sacks zz”l