Parasha

Parashat Tzav. Non aggrapparsi al passato, ma guardare al futuro: per questo la civiltà ebraica non si è disgregata

Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò
In The Watchman’s Rattle, sottotitolato Thinking Our Way Out of Extinction, Rebecca Costa (sociobiology americana 1955-…) offre un affascinante resoconto di come muoiono le civiltà. Quando i loro problemi diventano troppo complessi, le società raggiungono quella che l’autrice definisce una soglia cognitiva. Semplicemente non riescono a tracciare un percorso dal presente al futuro.

L’esempio che fa è quello dei Maya. Per un periodo di tremila e cinquecento anni, tra il 2.600 AEV e il 900 AEV, svilupparono una civiltà straordinaria, che si estendeva in quelli che oggi sono Messico, Guatemala, Honduras, El Salvador e Belize, con una popolazione stimata di 15 milioni di persone.

Non solo erano esperti vasai, tessitori, architetti e agricoltori, ma svilupparono anche un intricato sistema di calendario cilindrico, con carte celesti per seguire i movimenti delle stelle e prevedere i modelli meteorologici. Avevano una forma di scrittura unica e un sistema matematico avanzato. E soprattutto svilupparono un’infrastruttura per l’approvvigionamento idrico che comprendeva una complessa rete di serbatoi, canali, dighe e argini.

Poi, all’improvviso, per ragioni che ancora non comprendiamo appieno, l’intero sistema crollò. Tra la metà dell’ottavo e del nono secolo la maggior parte del popolo Maya scomparve. Ci sono state molte teorie sul perché sia successo. Potrebbe essere stata una prolungata siccità, la sovrappopolazione, le guerre intestine, una devastante epidemia, la scarsità di cibo o una combinazione di questi e altri fattori. In un modo o nell’altro, dopo essere sopravvissuta per 35 secoli, la civiltà Maya fallì e si estinse.

L’argomentazione di Rebecca Costa è che, a prescindere dalle cause, il crollo dei Maya, come quello dell’Impero Romano e dell’Impero Khmer della Cambogia del XIII secolo, è avvenuto perché i problemi divennero troppo numerosi e complicati per essere risolti dalla gente di quel tempo e di quel luogo. Ci fu un sovraccarico cognitivo e i sistemi cedettero.

Può succedere a qualsiasi civiltà. Secondo l’autrice, potrebbe accadere anche alla nostra.
Il primo segno di rottura è individuabile nell’impasse. Invece di affrontare quelli che tutti possono riconoscere come grandi problemi, le persone continuano a gestirli come al solito o semplicemente li passano alla generazione successiva.

Il secondo segno è il ripiegamento nell’irrazionalità. Poiché le persone non riescono più ad affrontare i fatti, si rifugiano nelle consolazioni religiose. I Maya hanno iniziato a offrire sacrifici. Gli archeologi hanno scoperto prove raccapriccianti di sacrifici umani su vasta scala. Sembra che, incapaci di risolvere razionalmente i loro problemi, i Maya si concentrassero sul placare gli dei facendo loro maniacalmente delle offerte. Pare che lo stesso facessero i Khmer.

Il che rende affascinante il caso degli ebrei e dell’ebraismo. Essi affrontarono due secoli di crisi sotto il dominio romano, tra la conquista di Pompeo nel 63 AEV e il crollo della ribellione di Bar Kochba nel 135 AEV. Erano irrimediabilmente divisi. Molto prima della Grande Ribellione contro Roma e della distruzione del Secondo Tempio, gli ebrei si aspettavano un grande cataclisma.
Ciò che fu sorprendente è che non si concentrarono ossessivamente sui sacrifici, come i Maya e i Khmer. Con il loro Tempio distrutto, si focalizzarono invece sulla ricerca di sostituti del sacrificio.

Uno di questi era la Ghemilut Chasadim, opere di bene. Rabban Yochanan ben Zakai confortò Rabbi Joshua, che si chiedeva come Israele avrebbe espiato i suoi peccati senza sacrifici, con le parole: “Figlio mio, abbiamo un’altra espiazione altrettanto efficace: gli atti di gentilezza, come è scritto (Osea 6:6): ‘Desidero la gentilezza e non il sacrificio'”. (Avot de-Rabbi Natan 8)

Un altro sostituto del sacrificio era lo studio della Torà. I Saggi hanno interpretato le parole di Malachia: “In ogni luogo si presentano offerte al Mio nome” (Malachia 1:11) per riferirsi a chi studia le leggi del sacrificio (Menachot 110a). Inoltre: “Chi recita l’ordine dei sacrifici è come se li avesse portati”. (Taanit 27b)

Un altro sostituto del sacrificio era la preghiera. Osea disse: “Prendete le parole con voi e tornate al Signore…”. Offriremo le nostre labbra come sacrifici di toro” (Osea 14:2-3), sottintendendo che le parole potevano prendere il posto dei sacrifici. Chi prega nella casa di preghiera è come se portasse un’oblazione pura. (Yerushlami, Perek 5 Halachah 1)

Un altro era la teshuvah. Il Salmo (51:19) dice che “i sacrifici di Dio sono uno spirito contrito”. Da ciò i Saggi hanno dedotto che “se una persona si pente gli viene riconosciuto come se fosse salita a Gerusalemme e avesse costruito il Tempio e l’altare e avesse offerto su di esso tutti i sacrifici ordinati nella Torà” (Vayikra Rabbah 7:2).

Un quinto approccio era il digiuno. Poiché l’assenza di cibo riduceva il grasso e il sangue di una persona, esso valeva come sostituto del grasso e del sangue di un sacrificio (Brachot 17a).

Un sesto approccio era l’ospitalità. “Finché c’era il Tempio, l’altare espiava per Israele, ma ora la tavola di una persona espia per lui” (Brachot 55a). E così via.

Ciò che colpisce col senno di poi è come, invece di aggrapparsi ossessivamente al passato, leader come Rabban Yochanan ben Zakai pensassero a uno scenario futuro peggiore. La grande domanda sollevata dalla parashà Tzav, che riguarda i diversi tipi di sacrificio, non è “Perché ci sono stati comandati di farli?” ma piuttosto: “Considerato quanto centrali fossero nella vita religiosa di Israele ai tempi del Tempio, come sarebbe sopravvissuto il giudaismo senza sacrifici?”

La risposta breve è che la stragrande maggioranza dei Profeti, dei Saggi e dei pensatori ebrei del Medioevo si rendevano conto che i sacrifici erano rappresentazioni simboliche di processi della mente, del cuore e dell’azione, che potevano essere manifestati anche in altri modi. Possiamo incontrare la volontà di Dio con lo studio della Torà, impegnandoci nel servizio di Dio con la preghiera, facendo sacrifici finanziari con la tzedakà, creando una sacralità con l’atto di ospitalità e così via.

Gli ebrei non abbandonarono il passato. Ma non si aggrapparono ad esso. Nelle nostre preghiere facciamo ancora riferimento ai sacrifici.
Gli ebrei non si rifugiarono nell’irrazionalità. Pensarono al futuro e crearono istituzioni come la sinagoga, la casa di studio e la scuola, che potevano essere costruite ovunque e avrebbero sostenuto l’identità ebraica anche nelle condizioni più avverse.

Non è un risultato da poco. Le più grandi civiltà del mondo si sono tutte estinte nel tempo, mentre l’ebraismo è sempre sopravvissuto. In un certo senso si è trattato della Divina Provvidenza. Ma in un altro senso è stata la lungimiranza di persone come Rabban Yochanan ben Zakai che hanno resistito alla disgregazione cognitiva, hanno creato soluzioni oggi per i problemi di domani, non hanno cercato rifugio nell’irrazionale e hanno costruito con calma il futuro ebraico.

Sicuramente qui c’è una lezione per il popolo ebraico di oggi: pianificare le prospettive per le generazioni a venire. Pensate ad almeno 25 anni nel futuro. Considerate gli scenari peggiori. Chiedetevi “Cosa faremmo se…”
Ciò che salvò il popolo ebraico fu la sua capacità, nonostante la sua fede profonda e costante, di non abbandonare mai il pensiero razionale e, nonostante la sua lealtà al passato, di continuare a pianificare il futuro.

di Rabbi Jonathan Sacks zzl