Parasha

Parashat Vaetchannan. Se si vuole cambiare il mondo, si deve iniziare dal perché

Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò
In un TED Talk molto seguito, Simon Sinek (scrittore e saggista americano 1973-…) ha posto la seguente domanda: in che modo i grandi leader ispirano l’azione? Cosa distingue persone come Martin Luther King e Steve Jobs dai loro contemporanei che potrebbero essere stati non meno dotati e qualificati? La sua risposta: la maggior parte delle persone parla di cosa. Alcune persone parlano di come. I grandi leader, però, iniziano con il perché. Questo è ciò che li rende trasformativi.

La lezione di Sinek riguardava gli affari e la leadership politica. Gli esempi più potenti, tuttavia, sono direttamente o indirettamente religiosi. In effetti ho sostenuto nel mio libro “The Great Partnership” che ciò che rende diverso il monoteismo abramitico è che crede che ci sia una risposta alla domanda, perché. Né l’universo né la vita umana sono privi di significato, un incidente, un semplice caso. Come dicevano Freud, Einstein e Wittgenstein, la fede religiosa è fede nel significato della vita.

Raramente questo principio viene mostrato in modo così potente come nella parashà di Vaetkhannan. C’è molto nell’ebraismo sul cosa: cosa è permesso, cosa proibito, cosa è sacro, cosa è secolare. C’è molto anche sul come: come imparare, come pregare, come crescere nel nostro rapporto con Dio e con gli altri. C’è invece relativamente poco sul perché.

In Vaetkhannan Mosè dice alcune delle parole più ispiratrici mai pronunciate sul perché dell’esistenza ebraica. Questo è ciò che lo ha reso il grande leader trasformativo che è stato, e che ha avuto conseguenze per noi, nel qui, ed ora.

Per avere un’idea di quanto fossero strane le parole di Mosè, dobbiamo ricordare diversi fatti. Gli israeliti erano ancora nel deserto. Non erano ancora entrati nel paese. Non avevano vantaggi militari sulle nazioni che avrebbero dovuto combattere. Dieci delle dodici spie avevano sostenuto, quasi quarant’anni prima, che la missione era impossibile. In un mondo di imperi, nazioni e città fortificate, gli israeliti dovevano essere sembrati a un occhio inesperto indifesi, senza esperienza, un’orda in più tra le tante che hanno attraversato l’Asia e l’Africa nei tempi antichi. A parte le loro pratiche religiose, pochi osservatori contemporanei avrebbero visto in loro qualcosa che li distinguesse dai gebusei e dai perizziti, dai midianiti e dai moabiti e dagli altri piccoli poteri che popolavano quell’angolo del Medio Oriente.

Eppure in questa parashà, Mosè comunicò una certezza incrollabile: ciò che era accaduto loro avrebbe infine cambiato e ispirato il mondo. Ascoltate il suo discorso: Chiedi ora dei giorni precedenti, molto prima del tuo tempo, dal giorno in cui Dio creò gli esseri umani sulla terra; chiedi da un’estremità all’altra dei cieli. È mai successo qualcosa di così grande come questo, o si è mai sentito parlare di qualcosa di simile? Un popolo ha mai ascoltato la voce di Dio che parla dal fuoco, come hai fatto tu, ed è sopravvissuto? Ha mai cercato un Dio di prendere per sé una nazione in mezzo un’altra nazione con miracoli, segni e prodigi, con la guerra, con mano potente e braccio teso, o con azioni grandi e tremende, come tutte le cose che il Signore tuo Dio ha fatto per te in Egitto davanti ai tuoi occhi? (Deuteronomio 4:32-34)

Mosè era convinto che la storia ebraica fosse, e sarebbe rimasta, unica. In un’epoca di imperi, un piccolo gruppo indifeso era stato liberato dal più grande impero di quei tempi da un potere non loro, da Dio stesso. Questo era il primo argomento di Mosè: la singolarità della storia ebraica come narrazione della redenzione.

Il suo secondo argomento era l’unicità della rivelazione: Quale altra nazione è così grande da avere i suoi dèi vicino a sé, come il Signore nostro Dio è vicino a noi ogni volta che lo preghiamo? E quale altra nazione è così grande da avere decreti e leggi così giuste come questo corpo di leggi che vi espongo oggi? (Deuteronomio 4:7-8)

Altre nazioni avevano divinità a cui pregavano e offrivano sacrifici. Anche loro attribuivano i loro successi militari alle loro divinità. Ma nessun’altra nazione vedeva Dio come suo sovrano e legislatore. Altrove il diritto rappresentava il decreto del re o, nei secoli più recenti, la volontà del popolo. In Israele, in modo univoco, anche quando c’era un re, egli non aveva potere legislativo. Solo in Israele Dio era visto non solo come un potere, ma come l’architetto della società, l’orchestratore della sua musica di giustizia e misericordia, libertà e dignità.

La domanda è perché. Verso la fine del capitolo, Mosè dà una risposta: “Perché ha amato i tuoi padri e ha scelto la loro discendenza dopo di loro”. (Deuteronomio 4:37). Dio amava Abramo, anche perché Abramo amava Dio. E Dio amava i figli di Abramo perché erano suoi figli e aveva promesso al patriarca che li avrebbe benedetti e protetti.

Prima però Mosè aveva dato una risposta diversa, non incompatibile con la seconda, ma diversa: “Vedi, ti ho insegnato decreti e leggi come il Signore mio Dio mi ha comandato… Osservali attentamente, poiché questa è la tua saggezza e intelligenza agli occhi delle nazioni, che ascolteranno tutti questi decreti e diranno: “Sicuramente questa grande nazione è un popolo saggio e comprensivo”. (Deuteronomio 4:5-6)

Perché a Mosè, o a Dio, importava che le altre nazioni considerassero o meno sagge e comprensive le leggi di Israele? L’ebraismo era ed è una storia d’amore tra Dio e un popolo particolare, spesso tempestoso, a volte sereno, spesso gioioso, ma vicino, intimo, anche introspettivo. Cosa c’entra il resto del mondo?

Il resto del mondo ha qualcosa a che fare con questo. Il giudaismo non è mai stato pensato solo per gli ebrei. Nelle sue prime parole ad Abramo, Dio ha già detto: “Benedirò quelli che ti benediranno, e quelli che ti malediranno, maledirò; per mezzo tuo saranno benedette tutte le famiglie della terra” (Genesi 12:3). Gli ebrei dovevano essere una fonte di benedizione per il mondo.

Dio è il Dio di tutta l’umanità. Nella Genesi Egli parlò ad Adamo, Eva, Caino, Noè, e fece un patto con tutta l’umanità prima di farne uno con Abramo. In Egitto, sia nella casa di Potifar, sia nella prigione, sia nel palazzo del Faraone, Giuseppe parlava continuamente di Dio. Voleva che gli egiziani sapessero che lui (Josef) non aveva fatto nulla, lo aveva fatto Dio stesso. Era semplicemente un agente del Dio di Israele. Non c’è nulla qui che suggerisca che Dio sia indifferente alle nazioni del mondo.

Più tardi, al tempo di Mosè, Dio disse che avrebbe compiuto segni e prodigi affinché “gli Egiziani riconoscessero che io sono il Signore” (Esodo 7:5). Chiese a Geremia di essere “profeta fra le nazioni”. Mandò Giona agli Assiri a Ninive. Mandò Amos a consegnare oracoli alle altre nazioni prima di inviargli un oracolo riguardante Israele. In quella che è probabilmente la più sorprendente profezia del Tanakh, inviò a Isaia il messaggio che verrà un tempo in cui Dio benedirà i nemici d’Israele.
L’Eterno gli conferirà la sua benedizione in questi termini: “Il Signore Onnipotente li benedirà, dicendo ‘Benedetto sia l’Egitto mio popolo, l’Assiria mia opera e Israele mia eredità’”. (Isaia 19:26)

Dio si preoccupa di tutta l’umanità. Pertanto ciò che facciamo come ebrei fa la differenza per l’umanità, non solo in senso mistico, ma come esempio di ciò che significa amare ed essere amati da Dio. Altre nazioni guarderebbero gli ebrei e sentirebbero che un potere più grande era all’opera nella loro storia. Come disse il compianto Milton Himmelfarb (sociografo americano ebreo 1918-2006): “Ogni ebreo sa quanto sia ordinario; eppure presi insieme, sembriamo presi da cose grandi e inspiegabili. . . Il numero di ebrei nel mondo è inferiore a un piccolo errore statistico nel censimento cinese. Eppure rimaniamo più grandi dei nostri numeri. Sembra che accadano grandi cose intorno a noi e a noi”.

Non siamo stati chiamati a convertire il mondo. Siamo stati chiamati a ispirare il mondo. Come disse il profeta Zaccaria, verrà un tempo in cui “Dieci persone di tutte le lingue e nazioni afferreranno fermamente un ebreo per l’orlo della sua veste e diranno: ‘Vogliamo venire con te, perché abbiamo udito che Dio è con voi’” (Zaccaria 8:23). La nostra vocazione è quella di essere ambasciatori di Dio nel mondo, testimoniando attraverso il nostro modo di vivere che è possibile per un piccolo popolo sopravvivere e prosperare nelle condizioni più avverse, costruire una società di libertà governata dalla legge per la quale tutti sosteniamo responsabilità collettiva, e «agire con giustizia, amare la misericordia e camminare umilmente» con il nostro Dio. Vaetkhannan è la dichiarazione d’intenti del popolo ebraico.

Altri ne sono stati e ne sono tuttora ispirati. La conclusione che ho tratto da una vita vissuta sulla pubblica piazza è che i non ebrei rispettano gli ebrei che rispettano l’ebraismo. Fanno fatica a capire perché gli ebrei, in paesi dove esiste un’autentica libertà religiosa, abbandonino la loro fede o definiscano la loro identità in termini puramente etnici.

Parlando personalmente, credo che il mondo nel suo attuale stato di turbolenza abbia bisogno del messaggio ebraico, cioè che Dio ci chiama ad essere fedeli alla nostra fede e essere una benedizione per gli altri indipendentemente dalla loro religione. Immaginate un mondo in cui tutti accettano questo concetto. Sarebbe un mondo trasformato.

Non siamo solo un’altra minoranza etnica. Siamo le persone che hanno predicato la libertà insegnando ai nostri figli ad amare, non a odiare. La nostra è la fede che ha consacrato il matrimonio e la famiglia, e ha parlato di responsabilità molto prima che di diritti. La nostra è la visione che vede l’alleviamento della povertà come un compito religioso perché, come disse Maimonide, non puoi avere pensieri spirituali elevati se sei affamato o malato o senza casa e solo. Facciamo queste cose non perché siamo conservatori o liberali, repubblicani o democratici, ma perché crediamo che sia ciò che Dio vuole da noi.

In questi giorni si scrive molto sul cosa e sul come dell’ebraismo, ma troppo poco sul perché. Mosè, nell’ultimo mese della sua vita, insegnò il perché. È così che il più grande dei leader ha ispirato l’azione dai suoi giorni ai nostri.
Se vuoi cambiare il mondo, inizia con il perché.

Di rav Jonathan Sacks z”l