Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò
Giuseppe conduce i suoi due figli, Manasse ed Efraim, da Giacobbe perché li benedica. Nell’impartire la benedizione, Giacobbe
incrocia le mani sulla testa dei nipoti, mettendo la sua destra sul capo di Efraim, il secondogenito, e impartendo a lui la benedizione
riservata ai primogeniti in quanto, dice, sarà Efraim a divenire il più importante e il più forte. Fa poi venire presso di sé gli altri
figli per impartire anche a loro la sua benedizione, nella loro qualità di progenitori delle tribù di Israele. Nella sua benedizione sottolinea tutte le qualità peculiari dei suoi figli, e predice con esattezza quello che sarà il futuro sviluppo di ognuna delle tribù.
Prima di morire si fa promettere da Giuseppe che lo seppellirà nella Terra dei Padri. Giuseppe lo seppellisce, con grandi onori, nella
grotta di Machpelà. Anche Giuseppe, prima di morire, si fa promettere che quando il popolo tornerà nella Terra promessa, porterà con sé la sua salma.
Fra gli infiniti spunti di riflessione che anche questa Parashà ci offre, ne sceglieremo due che ci sembrano particolarmente
interessanti: il desiderio espresso prima da Giacobbe e in seguito da Giuseppe, di essere sepolti nella terra che Dio aveva promesso ad
Abramo, e la benedizione che Giacobbe impartisce, in un primo tempo ai figli di Giuseppe, e poi a tutti i figli.
Nella benedizione impartita ai nipoti, Manasse ed Efraim, ripete in pratica, ma questa volta per sua propria, libera decisione, quanto
aveva fatto suo padre Isacco, affidando i diritti e i doveri di primogenito non a Manasse come sarebbe stata la prassi, bensì ad Efraim il secondogenito; quasi a dimostrazione che non è un rigido ordine di nascita che distingue un figlio da un altro, bensì i suoi
meriti, le sue inclinazioni, le sue capacità personali.
La richiesta espressa sia da Giacobbe sia da Giuseppe di essere seppelliti nella Terra che Dio ha promesso ad Abramo ci conferma la
continuità di una tradizione, l’ideale ininterrotto trasmesso da una generazione all’altra non soltanto del concetto monoteistico, ma anche la radicata convinzione nei nostri patriarchi che in quel momento costituivano ancora soltanto una famiglia, di dover divenire
un giorno un popolo: un popolo strettamente legato ad una terra, quella di Canaan.
E se tale desiderio è ampiamente comprensibile in Giacobbe, che in Canaan era nato e vissuto tranne per un’interruzione relativamente
breve, e se ne era allontanto definitivamente solo negli ultimi diciassette anni della sua vita per raggiungere in Egitto l’amato figlio Giuseppe, quest’ultimo invece nella terra di Canaan non era neppure nato: era nato infatti nel periodo in cui Giacobbe lavorava ancora in casa dello zio Labano, e nella terra di Canaan era tornato solo per pochi anni, dato che, come sappiamo, all’età di
diciassette anni era stato trascinato in Egitto.
Non ci avrebbe meravigliato perciò se la sua identità avesse subìto la profonda influenza di quella egiziana, fino a raggiungere una perfetta
identificazione con essa. Perché Giuseppe aveva salvato l’Egitto dalla catastrofe economica; in Egitto aveva preso in moglie una
giovane egiziana, vi erano nati i suoi figli e vi aveva vissuto quasi l’intera vita.
E invece anche lui, come suo padre, esprime nelle sue ultime volontà il desiderio intenso, struggente, di essere seppellito nella terra che il
Signore aveva promesso ai patriarchi: il dubbio che la sua famiglia e i suoi discendenti possano trattenersi definitivamente in Egitto non lo sfiora neppure per un attimo.
E si rivolge ai fratelli con queste commoventi parole: “Io sto per morire, ma Dio si ricorderà di voi e vi farà trasferire da questo
paese alla terra che giurò ad Abramo, a Isacco e a Giacobbe… Quando Dio si ricorderà di voi, porterete via di qui le mie ossa” (50,24-25).
Appare così chiaramente come l’intensa “chibath Zion”, l’“amore per Zion”, fosse sentito profondamente dai nostri padri ancor prima
dell’esistenza stessa della nazione!
È questa radicata convinzione dell’importanza di una propria terra per la sopravvivenza del popolo che ha costituito uno dei fattori
fondamentali dell’esistenza di Israele durante due millenni di diaspora. Ed è uno degli insegnamenti che dobbiamo trarre da questa
che è l’ultima Parashà del libro della Genesi.
Essa ci dice in pratica che almeno due dei fattori che costituiscono i tratti peculiari dell’identità ebraica, l’amore e la fiducia
verso il Dio unico e l’amore per la propria terra, erano presenti fin dagli inizi nei nostri progenitori.
Eppure la Torà, cioè la guida di comportamento che deve illuminare la vita dell’ebreo e che costituisce il terzo fondamentale fattore
che compone l’identità di Israele, non è stata ancora data, i tempi della schiavitù non sono ancora giunti, Mosè è ancora lontano
dall’essere nato.
Ci domandiamo quindi con una certa perplessità: ma i nostri patriarchi che non avevano ancora ricevuto la Torà né, da quel che ci risulta,
indipendentemente da quanto sostiene il Midrash, nessun suggerimento sul come condurre la propria vita, facevano consistere la loro
missione di portatori di “benedizione a tutte le famiglie della terra” solo sul possesso di una terra e su un fattore numerico: un Dio unico
a confronto con una infinita proliferazione di dèi?
Il Midrash, abbiamo visto, si sofferma a lungo sulla bontà del comportamento dei nostri patriarchi, ma la Torà fino a questo punto
poco ci ha rivelato del loro rapporto verso gli altri, verso il prossimo.
Soffermiamoci allora sulla benedizione che Giacobbe impartisce ai suoi figli: benedizione che è soprattutto una previsione, a volte
impietosa, di quello che sarà il futuro comportamento delle varie tribù che formeranno il popolo di Israele: un comportamento, e anche
questo argomento meriterebbe forse uno studio approfondito, che nella quasi totalità dei casi ricalca il comportamento e il carattere dei
figli di Giacobbe che ne sono i capostipiti.
Analizziamo in particolare la previsione che riguarda Simeone e Levi, due fratelli, accomunati in una unica “benedizione”, che di
benedizione, tuttavia, non ha alcun carattere e che, pronunciata nel momento solenne della dipartita di Giacobbe dal mondo terreno, ci
lascia per lo meno perplessi e sconcertati.
Dice Giacobbe: “Simeone e Levi sono fratelli: le loro spade sono strumenti di violenza. La mia persona non entri nella loro riunione,
non partecipare, o anima mia, nella loro assemblea, perché quando sono adirati uccidono uomini… Maledetta la loro ira perché è violenta, e
il loro furore perché è duro! Io li dividerò in Giacobbe, li sparpaglierò in Israele” (49,5-7).
Per comprendere l’incredibile asprezza delle parole che Giacobbe pronuncia in punto di morte dobbiamo risalire a un episodio riportato
nella Parashà di Va-jshlach.
Giacobbe aveva una figlia: Dina.
Un giorno il principe di Sichem, del popolo dei Chivvei, la rapì e la violentò. Ma se ne innamorò e mandò suo padre a chiederla in sposa a
Giacobbe.
Il rapimento di Dina, figlia di un uomo facoltoso, appartenente a una famiglia molto conosciuta e stimata nella zona, è un atto grave.
Se ne rende conto Chamor, il padre di Sichem, che offre a Giacobbe non soltanto un matrimonio riparatore, ma anche denaro, doni e una stretta alleanza che unisca la famiglia di Giacobbe al suo popolo.
I fratelli di Dina “con astuzia”, sottolinea il testo, accampano la scusa che non avrebbero potuto dare la loro sorella in moglie a un
“incirconciso”, e chiedono che tutti i maschi dei Chivvei si circoncidano.
I Chivvei accettano la richiesta.
Ma il terzo giorno dopo la circoncisione, mentre i Chivvei erano ancora sofferenti per l’operazione, “due dei figli di Giacobbe, Simeone e
Levi, presero la loro spada, assalirono la città… e uccisero tutti i maschi” (34,25).
Un atto di grande viltà, commesso con evidente premeditazione.
Per lo meno è questo il nostro giudizio oggi.
Ma presso tutti i popoli il rapimento e la violenza commessa su una ragazza dà origine a vendette di inaudita violenza.
E spesso, purtroppo, non solo nei tempi passati!
Una vendetta, quella di Simeone e Levi, alla quale gli altri fratelli non si uniscono, ma che rientrava perfettamente nella morale
dell’epoca!
Ma vediamo la reazione di Giacobbe all’operato dei due figli: “Allora Giacobbe disse a Simeone e a Levi: `Mi avete danneggiato
mettendomi in cattiva luce presso gli abitanti del paese’…” (34,30).
C’è forse nelle parole di Giacobbe il timore di una reazione da parte dei popoli circostanti per l’azione cruenta dei due figli?
Ma viviamo in un’epoca in cui le vendette sono all’ordine del giorno, in cui ognuno difende il proprio onore a modo proprio, e una
dimostrazione di forza avrebbe suscitato il timore dei popoli circostanti, piuttosto che la vendetta!
Soffermiamoci allora sulla seconda parte della frase pronunciata da Giacobbe: “Mettendomi in cattiva luce presso gli abitanti del paese”,
che ci appare profondamente significativa.
Qualsiasi famiglia dell’epoca avrebbe vendicato l’onore di una figlia violentata con una strage.
Ma diversa è la morale ebraica!
È il timore espresso da Giacobbe di “essere messo in cattiva luce” la chiave di lettura del versetto: esso sta a dimostrare che la vita e il
comportamento di Giacobbe erano stati fino ad allora tali da suscitare negli abitanti della zona solo rispetto e ammirazione!
Giacobbe aveva dunque un suo codice morale a cui teneva al punto che temeva che il cattivo comportamento dei figli offuscasse la fama della sua famiglia conosciuta come proba e retta, molto al di sopra della morale corrente, e non solo di quel tempo!
La famiglia, che aveva origine da Abramo, e che Abramo aveva indirizzato verso un certo tipo di comportamento, non poteva quindi
permettersi delle azioni che le avrebbero fatto perdere quella stima che gli altri popoli nutrivano nei suoi confronti.
La storia ci narrerà, e sarà questo un nuovo argomento di approfondimento, che sia la tribù di Simeone, sia quella di Levi vivranno disperse in mezzo a quelle dei fratelli.
Ma come diverso sarà il modo in cui la previsione di Giacobbe si avvererà per gli uni e per gli altri!
Di Elia Kopciowski
Shabat Roma 16.29-17.33
Shabat Milano 16.32-17.38
Shabat Jerushalaim 16.08-17.24
Shabat Tel Aviv 16.26-17.25