I fratelli riconoscono Giuseppe (Abraham Bloamaert-1595-1600)

Parashat Vayechì. Il potere allontana, genera sospetto e sfiducia

Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò
In quasi tutte le fasi del difficile incontro tra Giuseppe e la sua famiglia in Egitto, lui piange. Ci sono sette scene di pianto:

1. Quando i fratelli si presentarono per la prima volta davanti a lui in Egitto, si dissero l’un l’altro: “Sicuramente siamo stati puniti a causa di nostro fratello. Abbiamo visto quanto era afflitto quando ci ha supplicato per la sua vita, ma noi non abbiamo voluto ascoltarlo; ecco perché questa angoscia si è abbattuta su di noi”… Non si resero conto che Giuseppe poteva capirli, poiché si serviva di un interprete. Si allontanò e cominciò a piangere, ma poi tornò a parlare con loro. (Genesi 42:21-24)

2. La seconda volta, quando portarono con loro Beniamino e, profondamente commosso alla vista del fratello, Giuseppe si affrettò ad andare in camera, e là pianse. (Genesi 43:29-30)

3. Quando, dopo il discorso appassionato di Giuda, Giuseppe stava per rivelare la sua identità: non riuscì più a controllarsi e davanti ai presenti, gridò: “Fate uscire tutti dal mio cospetto!”. Così non c’era nessuno con Giuseppe quando si presentò ai suoi fratelli. E pianse così forte che gli egiziani lo udirono e la casa del faraone ne venne a conoscenza. (Genesi 45:1-2)

4. Quando subito dopo aver rivelato la sua identità: Giuseppe gettò le braccia intorno al collo di suo fratello Beniamino e pianse, e anche Beniamino lo abbracciò, piangendo. Poi baciò tutti i suoi fratelli e pianse abbracciato a loro. (Genesi 45:14-15)

5. Quando prima di incontrare di nuovo suo padre Israele, dopo la loro lunga separazione, Giuseppe fece preparare il suo carro e si recò a Goshen per raggiungerlo. Non appena il figlio gli si presentò davanti, gettò le braccia al collo del padre e pianse a lungo. (Genesi 46:29)

6. Alla morte del padre, Giuseppe cadde sul suo viso, pianse su di lui e lo baciò. (Genesi 50:1)

7. Quando i fratelli di Giuseppe videro che il loro padre era morto, dissero: “E se Giuseppe ci serbasse rancore e ci ripagasse di tutti i torti che gli abbiamo fatto?”. Così mandarono a dire a Giuseppe: “Tuo padre, prima di morire, ha lasciato queste disposizioni: ‘Questo è ciò che direte a Giuseppe: ti chiedo di perdonare ai tuoi fratelli le loro malefatte e i torti che hanno commesso trattandoti così male’. Ora, per favore, perdona i peccati dei servi del Dio di tuo padre”. Quando il loro messaggio gli giunse, Giuseppe pianse. (Genesi 50:15-17)

Nessuno piange quanto Giuseppe. Esaù pianse quando scoprì che Giacobbe aveva preso la sua benedizione (Genesi 27:38). Giacobbe pianse quando vide per la prima volta l’amore della sua vita, Rachel (Genesi 29:11). Entrambi i fratelli, Giacobbe ed Esaù, piansero quando si rincontrarono dopo un lungo allontanamento (Genesi 33:4). Giacobbe pianse quando gli fu detto che il suo amato figlio Giuseppe era morto (Genesi 37:35).

Ma i sette atti del pianto di Giuseppe non hanno paragoni. Essi abbracciano l’intero spettro delle emozioni, dal ricordo doloroso alla gioia del ricongiungimento, prima con il fratello Beniamino e poi con il padre Giacobbe.
Ci sono le complesse lacrime immediatamente prima e dopo aver rivelato la sua identità ai fratelli, e ci sono le lacrime di lutto al letto di morte di Giacobbe. Ma le più intriganti sono le ultime, quelle che versa quando sentì che i suoi fratelli temevano che si sarebbe vendicato di loro, ora che il padre non era più in vita.

In un bel saggio, Le lacrime di Giuseppe Rav Aharon Lichtenstein (1933-2015) suggerisce che quest’ultimo atto di pianto è l’espressione del prezzo che Giuseppe paga per la realizzazione dei suoi sogni e la sua elevazione a una posizione di potere. Giuseppe ha fatto tutto il possibile per i suoi fratelli. Li ha sostenuti in un periodo di carestia. Ha dato loro non solo un rifugio, ma anche un posto d’onore nella società egiziana. E ha chiarito il più possibile che non serbava rancore nei loro confronti per ciò che gli avevano fatto tanti anni prima. Come disse quando rivelò loro la sua identità: “E ora non siate angosciati e non siate arrabbiati con voi stessi per avermi venduto qui, perché è per salvare delle vite che Dio mi ha mandato davanti a voi…”. . . Dio mi ha mandato davanti a voi per conservare, per assicurarvi una sopravvivenza nel paese e per mantenervi in vita così che possa salvarsi un gran numero di voi. Non siete stati voi a mandarmi qui, ma Dio”. (Genesi 45:5-8)

Cosa potrebbe dire di più? Eppure, a distanza di tanti anni, i suoi fratelli non si fidano di lui e temono che possa ancora cercare il loro male.

Questo è il commento di Rav Lichtenstein: “In questo momento, Yosef scopre i limiti del potere grezzo. Scopre fino a che punto il legame umano, il legame personale, il legame familiare, hanno molto più valore e importanza del potere – sia per la persona stessa che per tutti coloro che lo circondano”. Giuseppe “piange sulla debolezza insita nel potere, sul prezzo terribile che ha pagato per esso. I suoi sogni sono stati effettivamente realizzati, a un certo livello, ma la tragedia rimane altrettanto reale. I brandelli lacerati della famiglia non sono stati completamente ricomposti”.

In superficie, Giuseppe detiene tutto il potere. La sua famiglia dipende interamente da lui. Ma a un livello più profondo è il contrario. Egli desidera ancora la loro accettazione, il loro riconoscimento, la loro vicinanza. E alla fine deve dipendere da loro per portare via le sue ossa dall’Egitto quando arriverà il momento della redenzione e del ritorno (Genesi 50:25).

L’analisi di Rav Lichtenstein ci ricorda il commento di Rashi e Ibn Ezra all’ultimo versetto del libro di Ester. Vi si legge che “l’ebreo Mordechai era secondo al re Assuero, era grande tra gli ebrei e ben accolto dalla maggior parte dei suoi fratelli” (Esther 10:3) – “la maggior parte” ma non tutti. Rashi (citando Megillah 16b) dice che alcuni membri del Sinedrio lo criticavano perché il suo coinvolgimento politico (la sua “vicinanza al re”) lo distraeva dal tempo che dedicava allo studio della Torà. Ibn Ezra dice, semplicemente: “È impossibile soddisfare tutti, perché la gente è invidiosa [del successo altrui]”.

Giuseppe e Mordechai/Esther sono esempi supremi di ebrei che hanno raggiunto posizioni di influenza e potere in ambienti non ebraici. In epoca moderna venivano chiamati Hofjuden, “ebrei di corte”, e gli altri ebrei nutrivano spesso sentimenti profondamente ambivalenti nei loro confronti.

Ma a un livello più profondo, le osservazioni di Rav Lichtenstein ricordano la famosa dialettica padrone-schiavo di Hegel, un’idea che ha avuto un’enorme influenza sul pensiero del XIX secolo, soprattutto marxista. Hegel sosteneva che la storia iniziale dell’umanità fosse segnata da una lotta per il potere, in cui alcuni diventavano padroni e altri schiavi. In apparenza, i padroni comandano e gli schiavi obbediscono. Ma in realtà il padrone dipende dai suoi schiavi: ha tempo libero solo perché loro fanno il lavoro, ed è il padrone solo perché è riconosciuto come tale dai suoi schiavi.

Nel frattempo lo schiavo, attraverso il suo lavoro, acquisisce la propria dignità di produttore. Così lo schiavo ha una “libertà interiore”, mentre il padrone ha una “schiavitù interiore”. Questa tensione crea una dialettica – un conflitto elaborato attraverso la storia – che raggiunge l’equilibrio solo quando non ci sono né padroni né schiavi, ma solo esseri umani che si trattano l’un l’altro non come mezzi per un fine, ma come fini in sé. Così intese, le lacrime di Giuseppe sono un preludio al dramma del padrone-schiavo che sta per essere messo in scena nel libro dell’Esodo tra il faraone e gli israeliti.

La profonda intuizione di Rav Lichtenstein sul testo ci ricorda fino a che punto la Torà, il Tanach e l’ebraismo nel suo complesso sono una critica sostenuta del potere. Prima dell’era messianica non possiamo farne a meno. (Si pensi alle tragedie che gli ebrei hanno sofferto nei secoli in cui ne sono stati privi). Ma il potere allontana. Genera sospetto e sfiducia. Sminuisce coloro contro cui viene usato, e quindi sminuisce coloro che lo usano.

Anche Giuseppe, chiamato “Yosef HaTzaddik: Giuseppe il Giusto” piange quando vede fino a che punto il potere lo distingue dai suoi fratelli. L’ebraismo è un ordine sociale alternativo che non dipende dal potere, ma dall’amore, dalla lealtà e dalla responsabilità reciproca creata dall’alleanza. Per questo Nietzsche, che basava la sua filosofia sulla “volontà di potenza”, vedeva giustamente l’ebraismo come l’antitesi di tutto ciò in cui credeva.

Il potere può essere un male necessario, ma è un male e meno ne abbiamo bisogno, meglio è.

Redazione Rabbi Jonathan Sacks zzl