Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò
C’è un’immagine che ci perseguita attraverso i millenni, carica di emozioni. È l’immagine di un uomo e di suo figlio che camminano fianco a fianco in un paesaggio solitario di valli ombrose e colline brulle. Il figlio non ha idea di dove stia andando e perché. L’uomo, al contrario, è in un vortice di emozioni. Sa esattamente dove sta andando e perché, ma non riesce a trovare un senso.
L’uomo si chiama Abramo. È devoto al suo Dio, che gli ha dato un figlio e che ora gli dice di sacrificarlo. Da un lato, l’uomo è pieno di paura: perderò davvero l’unica cosa che dà senso alla mia vita, il figlio per cui ho pregato per tutti questi anni? Dall’altro lato, una parte di lui dice: questo figlio era impossibile averlo – io ero vecchio e mia moglie era troppo anziana – eppure eccolo qui. Per questo, anche se sembra impossibile, so che Dio non me lo porterà via. Questo non sarebbe il Dio che conosco e che amo. Non mi avrebbe mai detto di chiamare questo bambino Isacco, che significa “riderà”, se avesse voluto far piangere lui e me.
Il padre si trova in uno stato di assoluta dissonanza cognitiva, eppure – pur non riuscendo a trovare un senso – si fida di Dio e non tradisce alcun segno di emozione nei confronti del figlio. Vayelchu shenehem yachdav. I due camminavano insieme.
C’è solo un momento di conversazione tra loro:
Isacco parlò e disse a suo padre Abramo: “Padre?”.
“Sì, figlio mio?” Abramo rispose.
“Il fuoco e la legna sono qui”, disse Isacco, “ma dov’è l’agnello per l’olocausto?”.
Abramo rispose: “Dio stesso provvederà all’agnello per l’olocausto, figlio mio”. (Genesi 22:7-8)
Quali mondi di pensieri non dichiarati e di emozioni non espresse si celano dietro queste semplici parole. Eppure, come a sottolineare la fiducia tra padre e figlio, e tra entrambi e Dio, il testo ripete: Vayelchu shenehem yachdav. I due camminavano insieme.
Mentre leggo queste parole, mi ritrovo a viaggiare indietro nel tempo, e nell’occhio della mia mente vedo mio padre e me che torniamo a casa dalla sinagoga durante lo Shabbat. All’epoca avevo quattro o cinque anni e credo di aver capito, anche se non riuscivo a dirlo a parole, che c’era qualcosa di sacro in quel momento. Durante la settimana vedevo la preoccupazione sul volto di mio padre che cercava di guadagnarsi da vivere in tempi difficili. Ma di Shabbat tutte quelle apprensioni erano altrove. Vayelchu shenehem yachdav. Camminavamo insieme nella pace e nella bellezza del giorno santo. Mio padre non era più un uomo d’affari in difficoltà. In quei giorni era un ebreo che respirava l’aria di Dio, godeva delle Sue benedizioni e camminava a testa alta.
Prima di ogni Shabbat mia madre preparava il cibo che dava alla casa il suo speciale profumo di Shabbat: la zuppa, il kugel, il lockshen. Mentre accendeva le candele, era la sposa, la regina, della quale cantavamo in Lecha Dodi e Eshet Chayil. Già allora avevo la sensazione che questo fosse un momento sacro, in cui eravamo in presenza di qualcosa di più grande di noi, che abbracciava altri ebrei in altre terre e in altri tempi, qualcosa che più tardi ho imparato a chiamare la Shechinah, la Presenza Divina.
Abbiamo camminato insieme, i miei genitori, i miei fratelli e io. Le due generazioni erano così diverse. Mio padre veniva dalla Polonia. Io e i miei fratelli eravamo “veri inglesi”. Sapevamo che saremmo andati dappertutto, che avremmo imparato cose e intrapreso carriere che loro non avrebbero avuto. Ma camminavamo insieme, due generazioni, senza doverci dire che ci amavamo. Non eravamo una famiglia dimostrativa, ma sapevamo dei sacrifici fatti dai nostri genitori per noi e dell’orgoglio che speravamo di portare loro. Appartenevamo a tempi e mondi diversi, avevamo aspirazioni diverse, ma camminavamo insieme.
Poi la mia immaginazione torna all’agosto di quest’anno (2011), a quelle scene indimenticabili in Gran Bretagna – a Tottenham, Manchester, Bristol – di giovani che si scatenavano per le strade, saccheggiando negozi, spaccando vetrine, incendiando auto, rapinando, rubando, aggredendo persone. Tutti si sono chiesti perché. Non c’erano motivazioni politiche. Non si trattava di uno scontro razziale. Non c’erano sfumature religiose.
Naturalmente la risposta era chiara come il sole, ma nessuno voleva dirlo. Nell’arco di non più di due generazioni, gran parte della Gran Bretagna ha silenziosamente abbandonato la famiglia e ha deciso che il matrimonio è solo un pezzo di carta. La Gran Bretagna è diventata il Paese con il più alto tasso di madri adolescenti, il più alto tasso di famiglie monoparentali e il più alto tasso al mondo – 46% nel 2009 – di nascite al di fuori del matrimonio.
Matrimonio e convivenza non sono la stessa cosa, anche se è politicamente scorretto dirlo. La durata media di una convivenza è inferiore ai due anni. Il risultato è che molti bambini crescono senza il loro padre biologico, e in molti casi non sanno nemmeno chi sia il loro padre. Nel migliore dei casi vivono con una successione di patrigni. È un fatto poco noto ma spaventoso, che il tasso di violenza tra patrigni e i figliastri è 80 volte superiore a quello tra padri naturali e figli.
Il risultato è che nel 2007 un rapporto dell’UNICEF ha dimostrato che i bambini britannici sono i più infelici del mondo sviluppato, in fondo a una classifica di 26 Paesi. Il 13 settembre 2011, un altro rapporto dell’UNICEF ha messo a confronto i genitori britannici con le loro controparti in Svezia e Spagna. Il rapporto ha evidenziato che i genitori britannici cercano di comprare l’amore dei propri figli regalando loro vestiti costosi e gadget elettronici – un “consumismo compulsivo”. Non riescono a dare ai loro figli ciò che desiderano di più e che non costa nulla: il loro tempo.
Il divario tra i valori ebraici e quelli secolari è oggi più evidente che in questo caso. Viviamo in un mondo secolare che ha accumulato più conoscenze di tutte le generazioni precedenti messe insieme, dal vasto cosmo alla struttura del DNA, dalla teoria delle superstringhe ai percorsi neurali del cervello, eppure ha dimenticato la semplice verità che una civiltà è forte quanto l’amore e il rispetto tra genitori e figli – Vayelchu shenehem yachdav, la capacità delle generazioni di camminare insieme.
Gli ebrei sono un popolo formidabilmente intellettuale. Abbiamo i nostri fisici, chimici, medici e teorici dei giochi che hanno vinto il premio Nobel. Tuttavia, finché ci sarà un legame vivo tra gli ebrei e la nostra eredità, non dimenticheremo mai che non c’è nulla di più importante della casa, del sacro legame del matrimonio e di quello altrettanto sacro tra genitori e figli. Vayelchu shenehem yachdav.
E se ci chiediamo perché gli ebrei hanno così spesso successo, e nel successo donano così spesso il loro denaro e il loro tempo agli altri, e così spesso hanno un impatto che va oltre il loro numero: non c’è nessuna magia, nessun mistero, nessun miracolo. È semplicemente che dedichiamo le nostre energie più preziose all’educazione dei nostri figli. Mai come durante lo Shabbat, quando non possiamo comprare ai nostri figli vestiti costosi o gadget elettronici, ma possiamo solo dare loro ciò che più desiderano e di cui hanno bisogno: il nostro tempo.
Gli ebrei sapevano, sanno e sapranno sempre ciò che le classi chiacchierone di oggi negano, ossia che una civiltà è forte quanto il legame tra le generazioni. Questa è l’immagine duratura della parashà di questa settimana: il primo genitore ebreo, Abramo, e il primo figlio ebreo, Isacco, che camminano insieme verso un futuro sconosciuto, con le loro paure fermate dalla loro fede. Se perdiamo la famiglia, finiremo per perdere tutto il resto. Santificando la famiglia, avremo qualcosa di più prezioso della ricchezza, del potere o del successo: l’amore tra le generazioni, che è il dono più grande che Dio ci fa quando ce lo doniamo l’un l’altro.
Redazione Rabbi Jonathan Sacks