Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò
“Cosa fanno i porcospini in inverno?”, chiese Schopenhauer (filosofo tedesco 1788-1860). “Come fanno a stare al caldo?”. Se si avvicinano troppo l’uno all’altro, si feriscono a vicenda. Se restano troppo distanti, si congelano”. La vita, per i porcospini, è un delicato equilibrio tra vicinanza e distanza. È difficile fare bene e pericoloso sbagliare. E così è per noi.
Questa è la forza della parola che dà il nome alla nostra parashà: Vayiggash. “E si avvicinò”.
Allora Giuda gli si avvicinò e gli disse: “Permettimi o signore, di dirti qualche cosa senza che ti adiri contro il tuo servo, perché tu sei come il Faraone”. (Genesi 44:18)
Forse per la prima volta nella sua vita, Giuda si avvicinò al fratello Giuseppe. L’ironia della sorte è che non sapeva che si trattasse di lui. Ma quell’unico atto di avvicinamento sciolse tutte le sue riserve, tutte le sue difese, e fu come se non riuscisse a fermarsi, alla fine rivelò la sua identità: “E disse ai suoi fratelli: “Io sono Giuseppe! Mio padre è ancora vivo?”. (Genesi 45:3)
Come possiamo essere sicuri che Vayiggash sia la parola chiave? Perché contrasta con un altro versetto scritto molti capitoli e molti anni prima. “Lo videro da lontano e, prima che si avvicinasse a loro, complottarono per ucciderlo. (Genesi 37:18) Proprio all’inizio della storia, quando Giuseppe fu mandato dal padre a vedere come stavano i fratelli, che badavano alle pecore, essi lo videro da lontano, da una certa distanza. Immaginate la scena. Non potevano vedere il suo volto. Tutto ciò che potevano vedere era il mantello riccamente ornato, il “mantello di molti colori”, che li turbava tanto. Questo mantello gli ricordava costantemente che era lui, non loro, la persona che il padre amava di più.
Da lontano non vediamo le persone come esseri umani e quando smettiamo di guardarle come tali e diventano invece simboli, oggetti di invidia o di odio, possono farci del male e di conseguenza farne noi a loro. La motivazione della tragedia di Giuseppe e dei suoi fratelli, è stata la distanza. Erano troppo distanti in tutti i sensi. Ecco perché solo quando Giuda si avvicinò a Giuseppe – vayiggash – la freddezza tra loro si scongelò e divennero fratelli, non estranei l’uno all’altro.
Troppa distanza ci blocca. Ma se ci avviciniamo troppo, possiamo ferirci a vicenda. Questa è la storia di Giacobbe ed Esaù. Pensateci. Giacobbe comprò la primogenitura di Esaù. Rubò la sua benedizione. Indossò i vestiti di Esaù. Prese in prestito la sua identità. Anche quando nacquero, Giacobbe stringeva il tallone di Esaù. Solo quando ci fu distanza tra loro (i 22 anni in cui Jacov fu lontano, perché si trovava a casa dallo zio Labano) il rapporto si risanò, così che quando si incontrarono di nuovo, nonostante le paure di Giacobbe, Esaù lo abbracciò e baciò e lo trattò come un fratello e un amico.
Troppo vicini ci feriamo a vicenda. Troppo distanti ci congeliamo. Come possiamo creare e sostenere relazioni, se l’equilibrio è così sottile ed è così facile sbagliare? La risposta della Torà, già presente nel suo primo capitolo, è: prima separarsi, poi unirsi. Il verbo lehavdil, “separare”, compare cinque volte nel primo capitolo di Bereshit. Dio separa la luce dalle tenebre, le acque superiori e inferiori, il mare e la terraferma. La separazione è al centro della legge ebraica: tra sacro e profano, puro e impuro, permesso e proibito. Nell’ebraismo la parola kadosh, santo, significa separazione. Santificare significa separare. Perché? Perché quando ci separiamo, creiamo ordine. Sconfiggiamo il caos. Diamo a tutto e a tutti il loro spazio. Io sono io e non tu. Tu sei tu e non io. Una volta rispettate le nostre differenze e distanze, possiamo unirci senza danneggiarci l’un l’altro.
Prima separare, poi unire. Questa sembra essere la via ebraica. Separazioni strazianti appaiono anche ai due estremi della storia di Abramo. All’inizio della sua missione, gli fu detto di separarsi da suo padre, di lasciare la sua casa e di viaggiare verso una nuova terra, lontana. Verso la fine gli fu detto di separarsi, in modi diversi, da ciascuno dei suoi due figli. Questi episodi dolorosi rappresentano la nascita agonizzante di un nuovo modo di pensare l’umanità. Anche se alla fine vediamo i figli di Abramo di nuovo insieme e il padre riconciliarsi con entrambi.
È così che Dio ha creato l’universo ed è così che si creano le vere relazioni personali. Separandosi e lasciando spazio all’altro. I genitori non devono cercare di controllare i figli. I coniugi non dovrebbero cercare di controllare il proprio partner. È la distanza accuratamente calibrata tra di noi che permette a ciascuna delle parti di crescere come individui completi e poi di essere visti, è quando ci allontaniamo che guardiamo davvero (ma senza andare troppo indietro).
Il simbolo più bello del problema in questione e della sua risoluzione, è la cerimonia dell’havdala alla fine dello Shabbat e in particolare la candela dell’havdala. Gli stoppini sono separati, ma la fiamma che producono è unita. Così è tra marito e moglie. Così è tra genitori e figli. E così è, o dovrebbe essere, tra fratelli e sorelle.
La distanza danneggiò il rapporto tra Giuda e Giuseppe. Tuttavia Vayiggash – il gesto di Giuda di avvicinarsi al fratello – lo ristabilì.
Di Rabbi Jonathan Sacks