Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò
La parashà di Yitrò racconta il momento rivoluzionario in cui Dio, Creatore del Cielo e della Terra, stipulò un accordo reciprocamente vincolante con una nazione, i figli di Israele, un accordo che chiamiamo brit, alleanza.
Questa non è la prima alleanza divina nella Torà. Dio ne aveva già stipulata una con Noè, e attraverso di lui con tutta l’umanità, e ne aveva stipulata un’altra con Abramo, il cui segno era la circoncisione. Ma queste alleanze non erano del tutto reciproche. Dio non chiese il consenso di Noè, né attese l’assenso di Abramo.
Il Sinai era una questione diversa. Per la prima volta, voleva che l’alleanza fosse pienamente reciproca, che fosse accettata liberamente. Così troviamo che – sia prima che dopo la Rivelazione al Sinai – Dio ordina a Mosè di assicurarsi che il popolo fosse effettivamente d’accordo.
Il punto è fondamentale. Dio vuole governare con il diritto, non con la forza. Il Dio che ha portato un popolo schiavo alla libertà, cerca l’approvazione consensuale di esseri umani liberi. Dio non agisce verso le sue creature come un tiranno. (Avodah Zarah 3A)
Così al Sinai nacque il principio che, millenni dopo, fu descritto da Thomas Jefferson nella Dichiarazione d’Indipendenza Americana: l’idea che i governanti e i governi traggono “i loro giusti poteri dal consenso dei governati”. Dio voleva il consenso dei governati. Ecco perché l’Alleanza del Sinai era subordinata al consenso del popolo.
Certo, il Talmud si chiede quanto gli israeliti fossero effettivamente liberi e utilizza un’immagine sorprendente. Dice che Dio sospese la montagna sopra le loro teste e disse: “Se siete d’accordo, bene. Se non lo siete, ecco la vostra sepoltura”. Questo è un altro argomento da approfondire per un’altra volta. È sufficiente dire che non c’è alcuna indicazione di questo nel senso del testo stesso.
Ciò che è interessante è la formulazione esatta con cui gli israeliti segnalano il loro consenso. Ripeto: lo fanno tre volte, prima della Rivelazione e poi due volte dopo, nella parashà di Mishpatim. Ascoltate i tre versetti. Prima della Rivelazione: Tutto il popolo rispose all’unisono e disse: “Tutto ciò che Dio ha detto, lo faremo [na’aseh]”. (Esodo 19:8)
Poi, dopo: Mosè venne e riferì al popolo tutte le parole di Dio e tutte le leggi. Il popolo rispose all’unisono: “Faremo [na’aseh] ogni parola che Dio ha pronunciato”. (Esodo 24:3)
Prese il Libro dell’Alleanza e lo lesse ad alta voce al popolo. Essi risposero: “Faremo [na’aseh] e ascolteremo [ve-nishma] tutto ciò che Dio ha dichiarato”. (Esodo 24:7)
Notate la sottile differenza. In due casi il popolo disse: tutto ciò che Dio dice, lo faremo. Nel terzo, si usa il doppio verbo: na’aseh ve-nishma. “Faremo e ascolteremo (o obbediremo, o ascolteremo, o capiremo)”. La parola shemà significa “capire”, come vediamo nella storia della Torre di Babele: “Venite, scendiamo e confondiamo la loro lingua, così che uno non comprenda quel che dice dell’altro”. (Genesi 11:7)
Attenzione ora che c’è un’altra differenza tra i tre versetti. Nei primi due casi c’è una chiara enfasi sull’unità del popolo. Entrambe le frasi sono molto suggestive. La prima dice: Tutto il popolo rispose all’unisono. La seconda dice: Il popolo rispose tutto ad una sola voce. In un libro che enfatizza quanto il popolo fosse fracassone e fissista, tali dichiarazioni di unanimità sono significative e rare. Ma il terzo versetto, che menziona sia il fare che l’ascoltare o il capire, non contiene alcuna dichiarazione di questo tipo. Dice semplicemente: Risposero. Non c’è alcuna enfasi sull’unanimità o sul consenso.
Si tratta di un commento biblico su una delle caratteristiche più evidenti dell’ebraismo: la differenza tra azione e credo, tra asiyah e shemiyah, tra fare e capire. I cristiani hanno la teologia. Gli ebrei hanno la legge. Si tratta di due approcci molto diversi alla vita religiosa. L’ebraismo è una comunità d’azione. Riguarda il modo in cui le persone interagiscono tra loro. Si tratta di portare Dio negli spazi condivisi della nostra vita collettiva. Proprio come conosciamo Dio attraverso ciò che fa, così Dio ci chiede di portarlo in ciò che facciamo. In principio, come diceva Goethe, era l’azione. Per questo l’ebraismo è una religione della legge, perché la legge è l’architettura del comportamento.
Quando invece si tratta di credenze, di credo, di dottrina, di tutte quelle cose che dipendono dalla shemiyah piuttosto che dalla asiyah, dalla comprensione piuttosto che dall’azione: su questo l’ebraismo non chiede l’unanimità. Non perché l’ebraismo manchi di credenze. Al contrario l’ebraismo è quello che è, proprio grazie alle nostre credenze, soprattutto la credenza nel monoteismo perché c’è, almeno e al massimo, un solo Dio. La Torà ci parla in Bereshit della creazione, in Shemot della redenzione e nella parashà di questa settimana della rivelazione.
L’ebraismo è un insieme di credenze, ma non è una comunità basata sull’unanimità del modo in cui comprendiamo e interpretiamo tali credenze. Riconosce che siamo intellettualmente e temperamentalmente diversi. L’ebraismo ha avuto i suoi razionalisti e i suoi mistici, i suoi filosofi e i suoi poeti, i suoi naturalisti e i suoi soprannaturalisti: Rabbi Ishmael e Rabbi Akiva, Judah Halevi e Maimonide, il Gaon di Vilna e il Baal Shem Tov. Cerchiamo l’unanimità nella halachah, non nell’Haggadah. Na’aseh, agiamo allo stesso modo, ma nishma, comprendiamo ciascuno a modo suo. Questa è la differenza tra il modo in cui serviamo Dio, collettivamente, e il modo in cui comprendiamo Dio, individualmente.
L’aspetto affascinante è che questa caratteristica ben nota dell’ebraismo è già segnalata nella Torà: nella differenza tra il modo in cui si parla di na’aseh, “come uno”, “con una sola voce”, e nishma, senza un particolare consenso collettivo.
I nostri atti, i nostri na’aseh, sono pubblici. I nostri pensieri, i nostri nishma, sono privati. È così che arriviamo a servire Dio insieme, pur relazionandoci a Lui individualmente, nell’unicità del nostro essere.
Di Rabbi Jonathan Sacks zzl