Shabbat Rosh ha Shanà

Parashà della settimana

Appunti di Parashà a cura di Lidia Calò
C’è qualcosa di molto strano in Rosh haShanà. Chissà se l’avete notato. Rosh Hashanah è l’inizio dell’Aseret Yemei Teshuvà, i dieci giorni penitenziali, che culminano a Yom Kippur. Pertanto, avrete pensato che dovremmo iniziare quel processo di espiazione con la penitenza: confessare i nostri peccati; ashamnu, bagadnu, gazalnu; al cheit shechatanu; slach lanu avinu ki chatanu; slach u’mechal ecc.

Eppure, naturalmente, se guardate nelle preghiere per Rosh Hashanah, non c’è un accenno a niente di tutto questo, niente di tutto ciò, nemmeno una parola sulla teshuvà. Quello che c’è scritto è di parlare di malchiyot, zichronot e shofarot, questa è la struttura di base di Musaf: la regalità e la sovranità di Dio sull’universo, il suo ricordo delle cose passate e le Shofarot, il richiamo acuto del corno di montone. Queste sono le strutture di base del Musaf nell’Amidà e riguardano Dio, non riguardano noi.

Quando proviamo a definire Rosh haShanà, in termini di machzor, vediamo hayom harat olam, oggi è l’anniversario della creazione. È il compleanno del mondo. Nessun riferimento alla teshuvà, solo piccoli accenni qua e là. Zochreinu lechayim, kotveinu lechayim, scrivici nel Libro della Vita. Avinu malkeinu chadesh aleinu et ha’shana hazot letova, hazireinu b’teshuva sheleima lefanecha, riportaci indietro con perfetto pentimento. Ma lo diciamo in altri periodi dell’anno. Quindi non c’è praticamente nulla sulla penitenza a Rosh haShanà.

Perchè no? Perché lasciare il pentimento a Yom Kippur, all’ultimo momento? “Per favore, Dio, ho solo pensato a qualcosa. Ho peccato, mi sono pentito”, ecc. È una cosa estremamente strana. Questo mi preoccupava, ci ho pensato per anni. C’era qualcosa che mancava. Cosa mi stavo perdendo? Alla fine, ho scoperto la risposta attraverso le persone che ho conosciuto, che sono diventate i miei mentori nel coraggio morale, e cioè i sopravvissuti all’Olocausto.

Ora ogni sopravvissuto all’Olocausto aveva una storia diversa e aveva un modo diverso di affrontarla. Ma c’era uno schema generale ridondante, ovvero che non parlavano di quello che era successo loro. Non ne hanno parlato ai loro coniugi o ai loro figli per anni e anni, a volte per molti decenni, hanno semplicemente evitato l’argomento.

Cosa hanno fatto? Si sono messi a costruire una casa in un nuovo paese. Pensarono a crearsi una famiglia, a sposarsi, ad avere figli, perché la maggior parte di loro li aveva comunque persi. Hanno iniziato ad avere un lavoro, a sviluppare una carriera, a costruire una vita. Hanno iniziato ad aiutarsi e rafforzarsi a vicenda. E solo molto, molto più tardi, spesso cinquant’anni dopo, hanno cominciato a raccontare la loro storia, e volte qualcun altro l’ha scritta per loro. Molti dei sopravvissuti che conoscevo andavano in giro per le scuole, le scuole non ebraiche e quelle ebraiche raccontando il loro dramma agli alunni, perché volevano davvero che capissero quanto fosse preziosa e fragile la libertà.
É improvvisamente che mi sono reso conto che c’era una struttura semplice in quello che hanno fatto. Prima, hanno costruito il futuro e poi hanno ricordato il passato.

Conoscevo un uomo d’affari di grande successo che fu investito da colpi di sfortuna molto duri. Il risultato è stato che ha perso quasi tutto ciò che aveva costruito. Sarebbe stato devastante, credo per chiunque, ma era un uomo dalla volontà di ferro e ha lavorato giorno e notte per dieci anni per ricostruire ciò che aveva perso. Dopo dieci anni, gli è capitato di tenere un discorso e ha detto: “Passerò il prossimo minuto a dire qualcosa di cui non parlo da dieci anni”. E ha accennato molto brevemente a quel colpo di sfortuna e ha detto: “Non ne ho parlato perché sapevo che se ne avessi parlato prima che fossero trascorsi dieci anni, semplicemente non sarei stato in grado di andare avanti”. E anche da lui ho imparato, prima a costruire il futuro e poi a ricordare il passato.

Ed è allora che ho capito la relazione tra Rosh Hashanà e Yom Kippur. Rosh Hashanà parla del futuro. Si tratta di Shanà tovà. Riguarda il futuro ebraico, infatti cosa leggiamo il primo giorno di Rosh Hashanà? La nascita del primo figlio ebreo, Isacco, e la nascita del profeta e untore di un re, Samuele, di Hanna che era senza figli e pregava per averne. I bambini sono il simbolo del futuro ebraico, e questo è ciò che scegliamo di leggere a Rosh Hashanà.

Quindi, una volta che abbiamo pregato per il futuro e pensato al futuro e alle nostre responsabilità per esso, una volta che ci siamo assicurati il ​​futuro, a Yom Kippur possiamo ricordare e lamentarci del passato. A volte il passato è così difficile che se ti concentri su di esso, cadi nella depressione e nella disperazione. Il modo ebraico è quello dire no, guarda avanti e costruisci un futuro, e poi quando tutto è sicuro, puoi tornare indietro e guardare al passato.

Questo per me è il messaggio di un anno molto, molto impegnativo. Abbiamo appena attraversato la pandemia del coronavirus, che è, per molti versi, la peggiore crisi che il mondo abbia dovuto affrontare dalla fine della seconda guerra mondiale. È dura per tutti. Mi sembra che la cosa più importante da fare sia concentrarsi sul futuro, non sul passato. Non credo che dovremmo trascorrere particolarmente questi preziosi momenti di spiritualità lamentando il passato, quando la prima cosa che dobbiamo fare è assicurarci il futuro. In realtà dobbiamo chiedere e pregare per l’aiuto di Dio per poter riparare ciò che è stato rotto, per ricostruire ciò che è stato distrutto, per guarire ciò che è stato danneggiato e per iniziare a costruire il futuro insieme. Questo è l’imperativo spirituale di questo momento. Ripariamo tutto ciò che è stato danneggiato. Costruiamo qualcosa di ancora più bello al posto di ciò che è andato perduto. Possa Hashem darci la forza per costruire, e in quell’edificio possiamo trovare la pace. Shanà tovà.

Di rabbi Jonathan Sacks

(Foto: Marc Chagall “Il sacrificio di Isacco”)