di Daniele Cohenca
Nella parashà della settimana leggiamo dell’incontro tra Yakov e suo figlio Yosèf, dopo oltre 20 lunghi anni durante i quali il padre credeva che il figlio fosse morto.
La Torà ci descrive la drammaticità e l’emozione di questo incontro, non prima di averci raccontato dell’incontro tra Yosèf ed il fratello Binyamin nel corso del quale entrambi piansero copiosamente per consolarsi reciprocamente delle future sventure che si sarebbero abbattute sui Santuari che, in futuro, sarebbero stati eretti nei rispettivi territori (Rashì).
Possiamo facilmente immaginarci la commozione ed i sentimenti che muovevano padre e figlio dopo decine di anni di distacco forzato; eppure mentre la Torah ci dice (di nuovo!) che Yosèf pianse abbondantemente, non ci dice nulla a riguardo di Yakov. I maestri spiegano che in quel momento Yakov stava recitando lo Shemà…; ora, partendo dal presupposto che ci è difficile credere che egli non avesse altri momenti per recitare lo Shemà, come ci è difficile credere che il tempo utile stesse per scadere e che egli avesse aspettato fino all’ultimo istante pur sapendo che avrebbe incontrato Yosèf, dobbiamo dire che la sua è un’azione volontaria. Il pianto, pur consolatorio e liberatorio, che ci permette di condividere dolori e quindi alleviarli, non è sempre utile: ci sono delle situazioni in cui un’azione pratica deve prevalere sui sentimenti e le emozioni. Yakov vuole dare a suo figlio un segnale; non che egli stesso non fosse emozionato e felice di ritrovare sui figlio (la Torah ce ne ha già parlato), ma in quel momento il messaggio che Yakov vuole dare e che ci viene trasmesso, è che invocare l’unicità di Hashem e l’attaccamento del popolo di Israele al proprio D-o a volte è più “utile” che abbandonarsi al pianto.