di Rav Jonathan Sacks
Che cos’è la leadership ebraica? Quali sono i valori che devono ispirare un leader ebreo? A queste domande risponde Rav Lord Jonathan Sacks, Rabbino Capo delle Congregazioni Ebraiche Unite del Commonwealth (Chief Rabbi of the United Hebrew Congregations of the Commonwealth), una delle figure più spiritualmente carismatiche del mondo ebraico internazionale. Allegata a questo numero del Bollettino, esce la seconda puntata della riflessione che rav Sacks vuole dedicare ai giovani. Dopo avere riflettuto nelle Lettere alla prossima generazione 1, uscita nel 2010 in occasione di Kippur, sull’importanza dell’eticità delle proprie azioni, Rav Sacks si concentra ora, nelle Lettere per la prossima generazione 2 – Riflessioni sulla vita ebraica, su un aspetto che da sempre pervade la storia ebraica: quello della leadership e dell’esercizio del comando. Mosè prima di tutto, ma anche Aaron, Miriam, e poi Giosuè, Elia, Geremia, e così via: molte sono le figure che hanno guidato nei millenni il popolo ebraico, affrontando non poche difficoltà e resistenze, ma profondamente consci dell’importanza del proprio ruolo.
“Ho scritto queste lettere perché i giovani ebrei hanno molte domande sull’ebraismo e la vita ebraica – spiega Rav Sacks -, domande serie e importanti che meritano delle risposte. Le sfide che i giovani ebrei fronteggiano oggi sono molte e di vario tipo. Il mondo necessita di un messaggio ebraico: molto più adesso che nel passato. Per molti popoli l’idea di globalizzazione è nuovissima. Per noi è vecchissima. Per circa duemila anni gli ebrei sono stati sparpagliati, ma si sono sempre visti, e sono stati sempre considerati dagli altri, come un unico popolo: il primo popolo globale. Il mondo ha bisogno che rimaniamo ebrei. Il popolo ebraico ha bisogno di restare ebreo. D-o ha bisogno che rimaniamo ebrei. Dopo tutto, siamo i Suoi più vecchi amici”. E agli italiani dice: “Sono molto onorato che queste mie lettere siano state tradotte in italiano. Possa la Comunità ebraica continuare a essere un’ispirazione per il mondo ebraico, una fonte di benedizione per l’Italia, e di gioia per l’Onnipotente. E possa Egli benedire voi e tutto Am Israel nel futuro”.
Recentemente mi è stato chiesto di scrivere la prefazione a una pubblicazione della Adam Science Foundation in occasione del XX anniversario del suo programma di leadership. Intitolata ad Adam Science z’l, morto tragicamente nel 1991 a soli 27 anni, il programma ha avuto un grande successo nello sviluppo di una nuova generazione di leadership laica e professionale anglo-ebraica. Esso ha contribuito a produrre leader per una nuova era, con le sue vecchie e nuove sfide.
L’espressione “leadership ebraica” è ambigua. Significa leadership svolta da ebrei, ma anche leadership condotta in maniera ebraica, che rispetta i principi e i valori ebraici. Il primo significato è comune, mentre il secondo è raro. Durante la mia vita ho avuto il privilegio di essere testimone di entrambi. Quindi, ringraziando per il passato e benedicendo per il futuro, ho deciso di descrivere sette dei numerosi assiomi della leadership svolta in modo ebraico.
Principio 1: La leadership inizia con l’assunzione di responsabilità
Contrapponiamo l’apertura della Genesi a quella dell’Esodo. I capitoli iniziali della Genesi riguardano il fallimento dell’assunzione di responsabilità. Messi da D-o davanti al loro peccato, Adamo accusa Eva, Eva accusa il serpente. Caino dice: “Son forse io il custode di mio fratello?”. Perfino Noah, “retto, perfetto nella sua generazione”, non ha alcuna influenza sui suoi contemporanei. Al contrario, all’inizio dell’Esodo Mosè si assume delle responsabilità. Quando vede un egiziano colpire un ebreo, interviene. Quando vede due ebrei litigare, interviene. A Midian, quando vede dei pastori che abusano delle figlie di Yitro, interviene. Mosè, un ebreo cresciuto come un egiziano, avrebbe potuto evitare ognuno di questi confronti, eppure non lo ha fatto. Egli è il caso estremo di uno che dice: quando vedo qualcosa di sbagliato, se nessun altro interviene, lo farò io. Al cuore dell’ebraismo ci sono tre convinzioni riguardo alla leadership: Noi siamo liberi. Noi siamo responsabili. E insieme possiamo cambiare il mondo.
Principio 2: Nessuno può guidare da solo
Sette volte in Genesi 1, viene usata la parola tov, “buono”. Solo due volte in tutta la Torà appare l’espressione lo tov, “non buono, non è un bene”. La prima volta è quando D-o dice: “Non è un bene per un uomo essere da solo”. La seconda è quando Yitrò vede suo genero Mosè guidare il popolo da solo, e gli dice: “Quello che stai facendo non va bene”. Non possiamo vivere da soli. Non possiamo essere leader da soli. La leadership è un lavoro di squadra.
Un corollario di questo discorso è che non c’è un solo tipo di leadership nell’ebraismo. Durante gli anni del pellegrinaggio nel deserto ci sono tre leader: Mosè, Miriam e Aaron. Mosè era vicino a D-o. Aaron era vicino al popolo. Miriam guidò le donne e sostenne i due fratelli. I saggi dicono che fu grazie a lei che ci fu acqua da bere nel deserto.
Durante l’era biblica, ci furono tre diversi ruoli di leadership: i re, i sacerdoti e i profeti. Il re era un leader politico. Il sacerdote era un leader religioso. Il profeta era un visionario, un uomo o una donna di ideali e idee. Quindi nell’ebraismo la leadership è un patrimonio di molteplici ruoli e prospettive. E per questo una persona non può guidare da sola il popolo ebraico.
Principio 3: La leadership riguarda il futuro
È una questione di visione. Prima che Mosè guidasse il popolo egli dovette fare l’esperienza del roveto ardente. Lì gli viene detto quale sarebbe stata la sua missione: condurre il popolo dalla schiavitù alla libertà. Egli ha una destinazione: la terra stillante latte e miele. Gli viene data una doppia sfida: persuadere gli egiziani a lasciare andare gli ebrei, e convincere il popolo ebraico a prendere il rischio di andare via. Quest’ultima si rivela molto più difficile della prima.
Man mano, Mosè mette in atto prodigi e miracoli. Ma l’azione più grande di leadership accade nell’ultimo mese della sua vita. Egli riunisce il popolo sulla riva del Giordano e pronuncia i discorsi che compongono il libro del Deuteronomio. Lì egli raggiunge i più alti livelli della profezia, i suoi occhi guardano l’orizzonte più lontano del futuro. Egli rivela al popolo le sfide che dovrà fronteggiare nella Terra Promessa. Dà loro delle leggi, e spiega la sua visione di buona società. Egli stabilisce dei principi, come l’assemblea nazionale ogni sette anni, nella quale recitare la Torà, e che periodicamente richiama Israele alla sua missione. Prima di diventare una guida, si deve avere una visione del futuro e si deve essere in grado di comunicarla agli altri.
Principio 4: I leader imparano
I leader studiano più degli altri, leggono più degli altri. Del re, la Torà dice che deve scrivere da solo il suo Sefer Torà, che “deve sempre avere con sé, e leggere tutti i giorni della sua vita” (Deut. 17:19). A Giosuè, il successore di Mosè, è comandato: “tieni questo libro della Legge sempre sulle tue labbra, meditaci giorno e notte” (Giosué 1:8). Senza uno studio costante, la leadership perde direzione e profondità.
Ciò vale anche per la leadership laica. Gladstone aveva un biblioteca di oltre 30.000 libri, di cui lesse circa 20.000. Gladstone e Disraeli erano entrambi scrittori prolifici, Winston Churchill scrisse circa 50 libri e vinse il premio Nobel per la letteratura. Visitate la casa di David Ben Gurion a Tel Aviv e vedrete che si tratta essenzialmente di una biblioteca con oltre 20.000 libri. Lo studio fa la differenza fra l’uomo di Stato e il politico, fra il leader che opera davvero un cambiamento e il manager.
Principio 5: Leadership significa credere nelle persone che si guidano
I rabbini danno una notevole interpretazione del passaggio in cui Mosè dice degli ebrei: “Essi non credono in me”. D-o dice a Mosè: “Sono credenti i figli dei credenti, ma alla fine tu non ci crederai”. Essi dicono anche che il segno che D-o diede a Mosè quando la sua mano divenne lebbrosa (Esodo 4:6) fu una punizione per avere dubitato degli ebrei. Un leader deve avere fiducia nelle persone che lui (o lei) guida.
In gioco c’è un principio fondamentale. L’ebraismo preferisce l’autorevolezza all’autorità. I re avevano autorità. I Profeti erano autorevoli, ma non avevano alcuna autorità. L’autorità eleva il leader al di sopra della gente. L’autorevolezza eleva le persone al di sopra di ciò che erano. L’autorevolezza rispetta le persone; il potere le controlla. L’ebraismo, che ha la più alta visione della dignità umana rispetto a qualsiasi altra religione, è molto scettico nei confronti del potere e profondamente serio nei confronti dell’autorevolezza. Quindi, una delle più grandi intuizioni dell’ebraismo sulla leadership è: la più alta forma di leadership è l’insegnamento. Il potere genera seguaci. L’insegnamento crea delle guide.
Principio 6: La leadership implica un senso del tempo e del passo
Quando Mosè chiede a D-o di scegliere il suo successore, dice: “possa il Signore, D-o che dà il respiro a tutti gli esseri viventi, nominare qualcuno alla guida della Sua comunità, che possa uscire prima di loro ed entrare prima di loro, che possa guidarli fuori e portarli dentro” (Numeri 27: 16-17). Perché questa apparente ripetizione? Mosè dice due cose sulla leadership. Un leader deve guidare “da davanti”. Lui o lei deve “andare fuori prima di loro”. Ma un leader non deve essere così tanto avanti, da non trovare dietro di sé nessuno che lo segua.
Egli deve “guidarli fuori”, nel senso di portare il popolo con sé. Deve procedere a un passo che il popolo può seguire.
Una delle frustrazioni più grandi di Mosè – lo capiamo dalla narrativa biblica – è il tempo che il popolo impiega per cambiare. Alla fine, ci vuole una nuova generazione e un nuovo leader per guidare il popolo attraverso il Giordano e nella Terra Promessa. Da qui il grande detto dei rabbini: “Non sei tu a dovere compiere la missione, ma non sei neanche libero di desistere da essa”.
La leadership implica un delicato equilibrio fra l’impazienza e la pazienza. Vai troppo veloce, e le persone resisteranno e si ribelleranno. Vai troppo piano, e diventeranno compiacenti. La trasformazione prende tempo, spesso più di una singola generazione.
Principio 7: La leadership è stressante, emotivamente impegnativa
Ascoltate Mosè, il più grande leader che il popolo ebraico abbia mai avuto: “Ho concepito io tutte queste persone? Ho dato io loro la nascita? Perché mi chiedi di portare loro nelle mie braccia, come una governante porta un bambino, alla terra che Tu hai promesso ai loro antenati sotto giuramento? (…) Io non posso portare queste persone da solo: il fardello è troppo pesante per me. Se questo è il modo in cui mi tratterai, ti prego vai avanti e uccidimi -se ho trovato favore ai tuoi occhi-, e non lasciarmi fronteggiare la mia stessa rovina” (Num. 11: 11-15).
Potete trovare sentimenti simili nelle parole di Elia, Geremia e Yona. Tutti a un certo punto hanno pregato di morire piuttosto che di proseguire. I leader “trasformativi” vedono il bisogno del popolo di cambiare. Ma il popolo resiste al cambiamento e si aspetta che il lavoro sia fatto dal leader al posto suo. Quando il leader restituisce la sfida, il popolo si arrabbia con lui e lo accusa dei suoi guai. Così Mosè è da incolpare per le difficoltà nel deserto. Elia è da incolpare per avere disturbato la pace. Geremia per i babilonesi. Nessuna sorpresa che i leader più innovativi sentano, a volte, esaurimento e disperazione.
Perché dunque essi guidano? Non perché essi credano in se stessi. I leader ebrei più grandi dubitavano della loro abilità a essere capi. Mosè dice: “Chi sono?”, “Essi non credono in me”, “Non sono una persona di parole”. Isaia dice: “Io sono un uomo dalle labbra poco pulite”. Geremia dice: “Io non posso parlare, non sono che un bambino”. Yona, davanti alla sfida della leadership, scappa via.
I leader hanno fatto i leader perché c’è un lavoro da fare, ci sono persone nel bisogno, c’è l’ingiustizia da sconfiggere, c’è del male da raddrizzare, ci sono problemi da risolvere e sfide da fronteggiare. I leader sentono questo come una chiamata ad accendere una candela, invece che a maledire il buio. Essi guidano perché sanno che stare fermi senza fare nulla e aspettare che gli altri facciano qualcosa è l’opzione più facile. La vita responsabile è la migliore vita che esista, e vale il dolore e la frustrazione. Guidare è servire: l’onorificenza più grande che Mosè riceve è quando viene chiamato eved Hashem, “schiavo del Signore”, e non c’è onore più grande.
Ebrei nella modernità
Ci sono delle sfide da affrontare per l’ebraismo britannico e mondiale e per il popolo e lo Stato di Israele. Il ritorno dell’antisemitismo è una di queste. L’isolamento di Israele è un’altra. Una terza sfida è l’erosione dell’identità ebraica ai tempi dell’affiliazione e dell’impegno.
In verità questi sono tutti sintomi di una singola onnicomprensiva questione dell’esistenza ebraica nell’era moderna. Che cosa vuole dire vivere come ebrei in un dominio pubblico, in un mondo senza muri? Gli ebrei sanno come sopravvivere alle persecuzioni. Sappiamo però come gestire la libertà? Sappiamo riconoscere i nemici. Ma sappiamo come farci degli amici? Il nostro destino è nelle nostre mani, e se cerchiamo un mondo migliore dovremo essere noi a costruirlo. Mai nella storia c’è stato un tempo migliore di questo per essere un leader ebreo. Per la prima volta in 4.000 anni di storia abbiamo indipendenza e sovranità in Israele, diritti e uguaglianza nella diaspora. In Gran Bretagna abbiamo una più alta percentuale di bambini ebrei nelle scuole ebraiche rispetto a qualsiasi altra epoca dei nostri 365 anni di storia. Gli ebrei e la voce ebraica sono rispettati nel mondo pubblico. E, nonostante vi siano elementi pericolosi ai margini della società, la Gran Bretagna rimane fondamentalmente una società tollerante. Davanti alla leadership ebraica del futuro c’è una strada giusta e una sbagliata. Quella sbagliata consiste nell’enfatizzare l’antisemitismo e gli attacchi a Israele, esagerare le tensioni fra le diverse correnti in seno all’ebraismo, e piangere la mancanza di una leadership ebraica. La giusta via è farsi amici all’interno e oltre la comunità ebraica, enfatizzare la dimensione spirituale ed etica dell’ebraismo, trovare progetti di azione sociale da sviluppare oltre le divisioni, e trovare i modi per rendere gli ebrei orgogliosi di essere ebrei.
(traduzione di Ilaria Myr © Bollettino della Comunità ebraica di Milano)