Comunità, famiglia, eredità ebraica: quale futuro? Un affollato dibattito inaugura un ciclo di incontri col Dec e rav Roberto della Rocca
“Ma davvero quella italiana è la storia di un ebraismo laico? Ci dimentichiamo, forse che il porto di Livorno, per secoli, è stato chiuso il sabato proprio perché gli ebrei livornesi osservavano lo shabbat e molti lavoravano al porto? A partire da questa eredità io penso che oggi la vera scommessa sia quella di recuperare il nostro ebraismo attraverso lo studio della Torà e dei maestri del Talmud, attraverso l’approfondimento, unica chiave per sapere chi siamo e qual è la nostra identità. Lo studio va sdoganato da quello che molti considerano un approccio bigotto o solo religioso. E’ un fattore identitario fondamentale, è conoscenza. E poi, per aprirci agli altri dobbiamo sapere chi siamo. Basta con l’ebraismo passatista che vorrebbe replicare qualcosa di mitico o eroico, l’ebraismo del c’era una volta e della memoria museificata. Un ebraismo “futurista” si costruisce sul ceppo di un’identità consapevole, in divenire, che non si guarda solo alle spalle coltivando memorie celebrative”.
Così parla Rav Roberto della Rocca, direttore del Dec, dal palco di una gremita Aula Magna Benatoff della Scuola Ebraica. Più di 250 persone per il dibattito organizzato dall’Assessorato alla Cultura: Comunità e Famiglia al centro dell’identità ebraica. A precedere il tutto, la proiezione di un video di interviste ai giovani della comunità. “Risposte interessanti, dai ragazzi potremmo imparare molto”, ha sottolineato l’Assessore alla cultura Daniele Cohen, presentando il ciclo di cinque incontri previsti per il 2011, in collaborazione col Dec. Sul palco, oltre a rav della Rocca, altre due celebrità: Sergio della Pergola, demografo e statistico, saggista, professore all’Università di Gerusalemme e Daniel Segre, esperto di sviluppo delle risorse umane e coaching manageriale.
A moderare il dibattito Fiona Diwan, direttrice de Il Bollettino, consulente, giornalista collaboratore de Il Foglio e Io Donna. “Quando nasce il concetto di kahal Israel?”, si chiede rav della Rocca e prosegue: “La comunità d’Israel nasce con Yehudà, il figlio di Jaacov. E’ lui a darci il nome, la parola yehudì viene da lui e costruisce la nostra identità; prima eravamo solo ivrì. Ma attenzione: anche Josef è portatore di identità. Esiste una linea josefita nel modo di sentire il proprio ebraismo che si aggiunge alla linea yehudita, trasmessaci da Yehudà.
Due modelli diversi di essere ebreo: noi siamo figli di Yehudà ma esistono in verità due direttrici identitarie, alla ricerca di un perenne equilibrio tra Josef e Yehudà, tra l’ebreo “di corte, che cerca l’affermazione nel mondo là fuori” e l’ebreo che si assume la responsabilità etica dell’identità ebraica e della sua continuità storica”, conclude della Rocca. “Oggi è tutto più complicato”, spiega Sergio della Pergola, “non abbiamo più una sola identità ma viviamo identità distinte, sovrapposte, multiple, quella di ebrei, di cittadini, quella della professione che esercitiamo e del milieu sociale che frequentiamo.
Mai l’ebraismo ha vissuto così tante sollecitazioni esterne e mai l’Europa ha vissuto un tempo di pace così lungo, tanto da far sentire l’ebreo così osmotico con la società circostante”.
“Aggirare l’ostacolo demografico, quello di essere numericamente pochi ebrei italiani, significa aprirsi all’ebraismo europeo, organizzare scambi, viaggiare e conoscere altre comunità, rafforzare un legame interno con incontri europei tra giovani facendo magari i machanè kaitz dei movimenti tutti insieme. Oppure istituendo scambi sistematici tra scuole ebraiche europee al quarto anno delle superiori”, suggerisce, Dan Segre. Per concludere, rav Alfonso Arbib ha invitato tutti a riflettere su un dato inquietante: per ogni ebreo che è arrivato fino a noi, oggi, quanti se ne sono persi per strada? “Rashi ci ricorda che solo un quinto del popolo ebraico uscì dall’Egitto. Quanti di noi si sono persi, nei secoli? Ecco perché conservare la nostra identità è la prima delle nostre responsabilità”.