di Rav Alfonso Arbib
Uno dei temi ricorrenti del dibattito comunitario italiano è la contrapposizione paura-coraggio. Dovremmo evitare ogni atteggiamento dettato dalla paura (paura del confronto, paura dell’altro, dell’assimilazione ecc…). Dovremmo essere più sicuri di noi stessi, della nostra identità, della forza delle nostre idee e delle nostre radici. Dovremmo in sintesi avere più coraggio.
Confesso che queste argomentazioni mi creano un certo disagio sia perché l’esaltazione del coraggio fa venire in mente ideologie politiche del passato, sia perché la rappresentazione dell’ebreo timoroso e un po’ vigliacco, contrapposto al cavaliere senza macchia e senza paura di altre tradizioni culturali, è stata usata in chiave antisemita.
Questo significa che il coraggio non fa parte della cultura e della storia ebraica?
Certamente no. Abbiamo luminosi esempi di coraggio collettivo, dalla rivolta di Chanukkà a quella del ghetto di Varsavia ma soprattutto straordinari casi di coraggio individuale, di grandi Maestri o singoli e oscuri ebrei che hanno rischiato, e a volte perso, la propria vita per rimanere tali.
La domanda vera è però un’altra. La paura è sempre negativa? È sicuramente negativa la paura paralizzante, il timore che impedisce di agire e di vivere pienamente la propria vita. D’altra parte non avere mai paura è patologico.
Nella tradizione ebraica si dà una grande importanza al “timore”, il timor di Dio è una delle mitzvòt fondamentali della Torà. Timore e paura sono la stessa cosa? No, ma spiegarne la differenza è complesso. Toccherò solo alcuni aspetti di questo argomento centrale della cultura ebraica.
Un passo dei Pirkè Avòt afferma che presupposto necessario della sapienza è il timore del peccato. È un invito a non fidarsi troppo della propria intelligenza e della propria cultura. Ma che cos’è il timore del peccato? Il termine ebraico usato è yiràt chet – il chet è un tipo particolare di peccato, è la colpa commessa involontariamente, per scarsa attenzione, per distrazione o per leggerezza. Rashì, in un commento a un verso di Devarìm dice che Dio ha messo l’uomo in un mondo “scivoloso”, è facile scivolare ed è facile cadere imprevedibilmente. L’uomo è portato, per sua natura, a sbagliare. Per questo motivo non deve essere troppo sicuro di se stesso. Sempre secondo i Pirkè Avòt la mancanza di timore del peccato è sinonimo di ignoranza, ma anche l’uomo colto corre il pericolo di sottovalutare le insidie, di avere un’eccessiva fiducia nella propria intelligenza.
Un grande Maestro dell’Ottocento, Rabbi Israel Salanter mette il tema della yirà al centro della propria riflessione. Salanter sottolinea la grande influenza che ha sull’uomo la taavà (desiderio, brama). L’uomo può diventare schiavo dei propri desideri. I desideri esercitano un’influenza fortissima sulle nostre azioni ma sono capaci di influenzare anche il nostro pensiero. Salanter parla di intelletto corrotto. Il fenomeno che descrive è il seguente: una persona prova un forte desiderio ma l’intelletto lo mette in guardia dal soddisfare un desiderio dannoso. Se però ciò che proviamo è molto intenso i nostri desideri avranno la forza di influenzare il pensiero e costruiremo un sistema di pensiero che permetta la soddisfazione del desiderio.
Secondo Salanter l’intelletto corrotto è ciò che nella tradizione ebraica viene chiamato yetzer harà’ – tendenza al male. Lo yetzer harà’ riguarda tutti, persone intelligenti e meno intelligenti, colti e incolti. Riguarda perfino i chakhamìm, anzi il Talmùd dice che se un uomo è grande il suo yetzer harà’ è più grande di lui. L’unico antidoto allo yetzer harà’ secondo Salanter è la yirà – il timore.
Il timore è coscienza della propria imperfezione, è l’altra faccia del coraggio, è il coraggio di mettersi in discussione.