Appunti di Lidia Calò
“È la festa delle cose semplici. È, ebraicamente, il momento in cui più di ogni altro ci avviciniamo alla natura, seduti in una capanna con solo foglie come tetto e prendendo in mano i frutti e il fogliame del lulav, dell’etrog, dei rametti di hadassim e delle aravoth”.
La Torà ci dice: “Vivrete nelle succot per sette giorni: Tutti gli israeliti nati in patria devono vivere nelle succot, affinché i vostri discendenti sappiano che vi ho fatto vivere nelle capanne quando vi feci uscire dall’Egitto: Io sono il Signore vostro Dio” (Vaykrà 23:42-43).
Nella Mishnà ci sono due opinioni.
Rabbi Eliezer ritiene che la succà rappresenti le Nubi di Gloria che circondarono gli israeliti durante gli anni del deserto, proteggendoli dal caldo durante il giorno e dal freddo durante la notte e bagnandoli con la radiosità della Presenza Divina. Rabbi Akiva invece diceva: “Succot mammash”, cioè una succà è una succà, né più né meno: è una capanna, un casotto, un’abitazione temporanea. Non ha alcun simbolismo. È quello che è.
Se seguiamo Rabbi Eliezer, allora è ovvio il motivo per cui festeggiamo facendo una succà. È lì per ricordarci di un miracolo. Tutte e tre le feste di pellegrinaggio parlano di miracoli. Pesach riguarda il miracolo dell’Esodo, Shavuot il miracolo della rivelazione sul Monte Sinai e Succot la tenera cura di Dio per il suo popolo durante il viaggio attraverso il deserto.
Ma secondo Rabbi Akiva, una succà è semplicemente una capanna, quindi qual è il miracolo? Non c’è nulla di strano nel vivere in una capanna se si conduce un’esistenza nomade nel deserto. Perché dovrebbe esserci una festa dedicata a qualcosa di ordinario, banale e non miracoloso?
Rashbam (nipote di Rashi) disse che la succà serviva a ricordare agli israeliti il loro passato, affinché nel momento in cui avessero provato la massima soddisfazione nel vivere in Israele – al tempo della raccolta dei prodotti della terra – ricordassero le loro umili origini. Un tempo erano un gruppo di profughi senza casa, che non sapevano quando avrebbero dovuto spostarsi. La festa di Succot, secondo Rashbam, serve a ricordarci le nostre umili origini, affinché non cadiamo mai nel compiacimento di dare per scontata la libertà, la terra d’Israele e le benedizioni che ci regala. Tuttavia, c’è un altro modo di intendere l’insegnamento di Rabbi Akiva. La succà rappresenta il coraggio che gli israeliti hanno avuto di viaggiare, di spostarsi, di lasciarsi alle spalle la sicurezza e di seguire la chiamata di Dio, come fecero Avraham e Sarah agli albori della nostra storia. Secondo Rabbi Akiva la succà è la casa temporanea di un popolo temporaneamente senza casa. Simboleggiava il coraggio di una sposa disposta a seguire il marito in un viaggio carico di rischi in un luogo mai visto prima, un amore che si manifestava nel fatto che era disposta a vivere in una capanna, confidando nella promessa del marito che un giorno ne avrebbero avuto una permanente.
Ciò che è davvero sorprendente è che Succot è chiamata, dalla tradizione, zeman simchateinu, “il tempo della nostra gioia”. Questa, per me, è la meraviglia al centro dell’esperienza ebraica: gli ebrei, nel corso dei secoli, sono stati in grado di sperimentare il rischio e l’incertezza ad ogni livello della loro esistenza, eppure sono stati ancora in grado di gioire. Questo è un coraggio spirituale di alto livello. La fede non è certezza; la fede è il coraggio di vivere nell’incertezza. La fede è la capacità di gioire in mezzo all’instabilità e al cambiamento, viaggiando nel deserto del tempo verso una destinazione sconosciuta.
Rabbi Jonathan Sacks zzl
Milano
Entrata 18.07 – Uscita (sabato 19 ottobre) 19.14