di Daniele Cohenca
La preghiera – in ebraico Tefillà – è nota come il modo in cui le persone si relazionano con Dio; ci sono preghiere individuali, collettive e corali, riflessioni, pianti e gridi di gioia; nelle prossime due puntate, studieremo la preghiera secondo l’approccio di Rav Kook.
Partiamo da una domanda molto profonda: la preghiera cambia Dio o cambia la persona? Sarebbe probabilmente necessario un intero studio solo per capire lo spessore della questione; iniziamo da una prima risposta che troviamo negli scritti del Maestro: “colui che sostiene che la preghiera può cambiare la volontà del Signore, rischia di essere blasfemo; colui che pensa che la preghiera può solamente cambiare sé stesso, mina il valore della preghiera e mette in discussione la religione”.
Particolarmente nell’era moderna abbiamo assistito – ed assistiamo tutt’ora – ad una sorta di transizione nel pensiero comune; dalla fiducia in Dio (“in God we trust…”) che ha accompagnato l’umanità per millenni, siamo velocemente passati alla fiducia nell’essere umano. Questo atteggiamento è probabilmente figlio di una sorta di protesta verso religioni di fede passiva. Sono davvero solo due le opzioni disponibili citate sopra? Pregare il Signore in assoluta passività o fidarsi solo del potere della mente umana?
Rav Kook inserisce qui una terza variabile: “la persona che prega poiché crede che cambiando sé stesso può cambiare il mondo intero, porterà Benedizioni per sé stesso e per tutto il mondo”.
Una visione distorta della preghiera
Riavvolgiamo: esiste una visione distorta della preghiera, che prevede che quando si prega Dio, l’Esistenza più potente in assoluto, vengano esauditi i nostri desideri; in altre parole, Dio viene influenzato da ciò che diciamo e reagisce quando lo mettiamo sotto pressione con le nostre richieste. Molto probabilmente siamo al limite dell’eresia.
Ridurre la preghiera ad una semplice reazione causa-effetto, non solo ne sminuisce il valore, ma allontana le persone dalla stessa: ci rivolgiamo all’Essere Superiore come ad una sorta di bancomat che eroga risposte ai nostri bisogni, spesso poco virtuosi e molto materiali: questa non è preghiera!
Questo modo di vedere le cose ha indebolito la percezione del reale significato della preghiera, dal momento che – oggi più che mai – abbiamo (apparentemente!) molti mezzi per ottenere ciò che desideriamo, senza che ciò coinvolga la “religione” o la fede, mentre, dall’altro lato, la mancata “risposta” alle nostre “richieste” provoca un naturale allontanamento dalla Tefillà.
La parola ebraica Tefillà (utilizzata per definire la preghiera) trova la sua radice nel “giudicare, supplicare”, mentre il suo significato riflessivo “Lehitpallèl – comunemente tradotto in “pregare”, vuole invece dire “giudicare sé stessi”.
Si prega non per ottenere ma per cambiare sé stessi nei confronti di Dio
È un concetto che abbiamo già trovato negli articoli sulla Teshuvà (La Teshuvà è crescita individuale e ritorno a noi stessi, secondo Rav Kook e Per fare Teshuvà, bisogna sapere perdonare se stessi) e che è parte fondante del pensiero di Rav Kook: lo scopo della preghiera non è quello di modificare la volontà del Signore, piuttosto ha come obiettivo un cambiamento nell’atteggiamento di colui che prega, affinché questo si allinei con la volontà di Dio. È vero che chi prega si rivolge a Dio come a un Re che può essere convinto, o ad un padre che può cambiare idea, ma questo è solo lo strumento affinché si possa elevare sé stessi, non ne è il fine! Non esiste la possibilità di cambiare la volontà di Dio, esiste la possibilità di cambiare il nostro atteggiamento verso di Lui: la preghiera consiste in un atto miracoloso che Dio ha concesso alle Sue creature.
La preghiera è uno dei mezzi più diffusi usati per soddisfare i propri desideri spirituali e materiali, sociali ed individuali; la preghiera ideale non è quella che si attende una reazione immediata, ma quella che coinvolge la persona in maniera attiva affinché si adoperi perché i suoi desideri ed i suoi obiettivi si possano realizzare. Per arrivare a questo livello è necessario elevare sé stessi verso un valore più profondo della forza della preghiera e cercare di mettere in campo le proprie energie per raggiungere il grado più elevato di comprensione di ciò che realmente è la preghiera: la preghiera cambia la persona.
Da quanto esiste l’essere umano, la preghiera – sotto forme diverse – è sempre stata una necessità assoluta: la nostra anima ci chiede di reagire e noi non riusciamo; onde di sentimenti ed emozioni contrastanti cavalcano i nostri cuori in continuazione; ci viene richiesto (o siamo noi a ricercarlo…) uno stato di perfezione in realtà irraggiungibile; come conseguenza, ci scopriamo fragili, tristi a volte depressi e frustrati. Prima che sia troppo tardi e questo “male profondo” faccia danni irreversibili, iniziamo a pregare: ci sentiamo quindi più appagati, non perché i nostri problemi siano risolti magicamente, piuttosto perché con la preghiera abbiamo accesso ad una dimensione di tranquillità ed ottimismo che ci apre gli occhi ed il cuore. Più tempo passa senza pregare, maggiore è lo sconforto in cui le persone si trovano, il cuore viene appesantito da pietre, la nostra anima grida e noi non la sentiamo. Per capire gli effetti positivi della preghiera, basti pensare agli ultimi istanti di Yom Kippur, quando i nostri cuori sono tutti rivolti verso l’Alto, quando le parole cantate e gridate da tutti hanno la capacità di smuoverci e quando, finalmente, siamo travolti da un senso di pace e benessere profondo.
Nelle prossime puntate, studieremo “il potere della parola”, come e per cosa pregare.
(Foto: AdobeStcok)