Sukkot e Hoshanà Rabbà: c’è sempre una porta aperta per chi decide di rientrare

Parole di Torah

di Rav Jakov Di Segni
La festa di Sukkot si trova nel calendario ebraico a conclusione di due cicli differenti. Il primo ciclo è quello degli Shalosh Regalim, le tre Feste di Pellegrinaggio che cominciano con Pesach, proseguono con Shavuot e terminano con Sukkot. Il secondo ciclo è quello delle ricorrenze penitenziali del mese di Tishri (Yamim Noraim “Giorni Terribili”): Rosh Hashana e Kippur, che si conclude alla fine della festa di Sukkot con il giorno di Hoshanà Rabbà. Questi due cicli, così diversi fra loro, danno alla festa di Sukkot un aspetto duplice: da un lato gioioso, “zeman simchatenu”, caratteristico degli Shalosh Regalim, dall’altro austero, con l’atmosfera penitenziale del giorno di Kippur. È già la Mishnà nel trattato di Rosh Hashanà che ci insegna che la Festa per eccellenza, Sukkot, è anche il giorno in cui veniamo giudicati per la pioggia.

Quando la Torà parla della festa di Sukkot scrive che “Il primo giorno” (bayom harishon) si dovranno prendere in mano le quattro specie del Lulav: il cedro, la palma, il mirto e il salice. I Rabbini nel Midrash spiegano l’espressione anomala “il primo giorno”, che sembra superflua, chiamando la festa di Sukkot: “Primo giorno per il conteggio dei peccati”. I peccati dell’anno precedente sono infatti stati perdonati il giorno di Kippur, e tra Kippur e Sukkot siamo stati occupati nella preparazione delle mitzwot della festa: il Lulav e la Sukkà.

Il Talmud dice che nel momento in cui ci si occupa di una mitzwa, questa ci protegge dal commettere dei peccati. Per questo motivo i Maestri del Midrash hanno cercato nel Lulav un legame con il tema della Teshuva (pentimento) e hanno paragonato le quattro specie alle quattro categorie di ebrei che compongono il popolo d’Israele: il cedro, che ha sia odore che sapore, corrisponde a coloro che studiano la Torà e osservano le mitzwòt; la palma e il mirto che hanno sapore o odore corrispondono a quelle persone che studiano la Torà, ma non osservano le mitzwot, oppure osservano ma non studiano. Infine il salice, che non ha né odore né sapore, corrisponde a quegli ebrei che né studiano Torà né osservano le mitzwot. Tutte queste quattro specie diverse sono necessarie per compiere la mitzwà del Lulav e, allo stesso modo, il popolo d’Israele deve racchiudere al suo interno tutte le categorie di ebrei, anche quelli più lontani, solo allora la Teshuvà può essere accolta.

Secondo un’altra interpretazione, le quattro specie del Lulav corrispondono alle quattro lettere che compongono il Tetragramma, il Shem Hawayà: secondo una versione, il salice corrisponderebbe alla lettera He del Nome. Il Talmud (TB Menachot 29b) scrive che questo mondo fu creato con la lettera He, in base a un’espressione della Parashà di Bereshìt (hibbare’am). La forma della lettera He che è aperta in basso – continua il Talmud – assomiglia a un colonnato, dove chi vuole uscire può farlo, come a dire: chi vuole uscire dalla strada della Torà e delle mitzwot lascia questo mondo e cade in basso. A questo punto, però, chiede il Talmud, come mai nella lettera He c’è uno spazio tra la gamba e la parte superiore? Perché c’è sempre una porta aperta per chi decide di fare Teshuvà e rientrare. Ecco quindi che la Aravà (salice) corrispondente alla lettera He è la specie che ricorda di più il tema della Teshuvà.

Anche la forma della Sukkà richiama quella della lettera He. La Sukkà infatti, secondo la Halakhà, deve avere almeno tre pareti, ma la terza parete può essere anche parziale (“Shenaim kehilchatan ushlishit afillu tefach”) La Sukkà può avere quindi quattro pareti (come la lettera samekh), ne può avere tre (come la lettera kaf), ma ne può avere anche due complete e una parziale (come la lettera He). è possibile inoltre trovare nella struttura della Sukkà un legame con le quattro categorie di ebrei di cui abbiamo parlato riguardo al Lulav: anche nella Sukkà abbiamo il tetto, che è la parte principale della Sukkà, che corrisponde alle persone che studiano Torà e osservano le mitzwot; il tetto è fatto di frasche odorose, ma è anche abbellito con la frutta (sapore e odore). Le due pareti intere, benché siano a un livello più basso rispetto al tetto, sono comunque una parte importante della Sukkà e corrispondono a quelle persone che o studiano o osservano le mitzwot (odore); infine abbiamo la terza parete, che come abbiamo detto, non deve necessariamente essere intera, ma può essere anche parziale (priva anche di odore). Questa parete è a un livello ancora più basso rispetto alle altre due pareti, ma è comunque necessaria per uscire d’obbligo dalla mitzwà della Sukkà. Allo stesso modo è importante che anche quelle persone che non studiano e non compiono le mitzwot rimangano all’interno della collettività, perché è anche grazie a loro che la comunità può sopravvivere. Come la terza parete della Sukkà, anche queste persone hanno un’anima ebraica che solo se vivrà in mezzo alle altre anime della comunità potrà risvegliarsi.

Rav Shelomo Efraim Luntschitz (Polonia, 1550-1619) nel suo commento alla Torà Keli Yaqar spiega che c’è una differenza tra la Teshuvà della collettività e quella del singolo: la prima è accettata in ogni momento, mentre la seconda è accettata solo nei dieci giorni penitenziali. Questo è il motivo per cui a Sukkot ci viene chiesto di unirci alla comunità e di non separarci da essa, perché da Kippur fino al prossimo Rosh Hashana la Teshuvà può essere accettata solo se viene da tutta la comunità unita.  Spesso succede che dopo il periodo di Rosh Hashana e Kippur le Sinagoghe si svuotano e ognuno torna alla sua vita, allontanandosi dagli altri ebrei. Le mitzwot del Lulav e della Sukkà ci insegnano, invece, che proprio dopo il periodo degli Aseret Yeme Teshuva dobbiamo rimanere uniti e sono in questo modo potrà essere accettata la nostra Teshuvà.

(Foto: Leopold Pilichowski, Sukkot in sinagoga (1894-95)