Una candela, per distinguere il bene dal male

Parole di Torah

di Joseph Salvadori

EbraicitàIn alcune Comunità Ebraiche d’Italia vi è lo strano uso di utilizzare la candela alla cui luce abbiamo letto la Meghillà di Echà, durante la triste notte di Tishà Be’Av, per accendere molti mesi dopo lo Shamash nelle notti di Chanukkà.

Per cogliere il significato profondo di questo uso dobbiamo aggiungere un’ulteriore ricorrenza: la Festa di Pesach. Nella notte del 14 di Nissan operiamo un’attenta ricerca che completa le nostre pulizie festive: si tratta della Bedikat Chametz. Questa ricerca deve essere fatta con particolare solerzia e accuratezza e i nostri maestri a tale scopo dispongono che venga compiuta alla luce di una candela.

Molto spesso siamo tentati di vedere nelle rigide disposizioni della Halakhà delle regole assai restrittive che ci vincolano nella vita e portati ad identificare coloro che la applicano con attenzione come persone ottuse, addirittura intellettualmente limitate, ma trascuriamo di prendere in considerazione che la nostra natura umana ci impone che un concetto, per essere ben assimilato, debba essere anteceduto da un’azione materiale che lo introduca e lo esplichi.

È così che l’azione indicata dalla Halakhà non è altro che il prospetto di un processo interiore.

Si sa che il chamez – il cibo lievitato rappresenta lo Yetzer Ha’rà la cosiddetta inclinazione al male; una ricerca materiale attenta del Chamètz, perché compiuta alla luce di una candela, può da questa prospettiva essere vista come un’attenta analisi interiore volta a cogliere ed estirpare il nostro istinto negativo!

Coloro che si esimono da questa ricerca materiale che è, come abbiamo visto, ricerca interiore, rinunciano a distinguere tra ciò che è bene e ciò che è male, tra ciò che D-o ordina di fare per il nostro bene e per il bene della collettività e ciò che D-o ordina di non fare per la medesima ragione. Coloro che rinunciano a ciò rinunciano ad attestare l’immanenza di D-o nel mondo!

Quest’ultimo principio ha caratterizzato due delle peggiori invasioni che il popolo ebraico abbia vissuto: la conquista che tanto i greci quanto i romani hanno operato contro gli ebrei aveva come strumento di realizzazione l’assimilazione, la generalizzazione nella massa (ricordiamo a tal proposito che i greci avevano imposto la soppressione del precetto del bèrit milà, del nostro segno di distinzione), l’esimersi appunto dall’individuale impegno di cercare e distinguere tra bene e male, giustificando ogni azione con il conformarsi a ciò che fa la massa, nascondendo così la presenza di D-o nel mondo e nel tempo.

Conosciamo l’esito di entrambe le occupazioni: quella greca si è dimostrata, seppure per un tempo assai ridotto, la ripresa in mano della coscienza ebraica, la riposizione di D-o nel mondo e di conseguenza una miracolosa vittoria contro il nemico; quella romana successiva e purtroppo definitiva ha portato alla distruzione del Tempio e all’allontanamento della Shechinà (Presenza Divina).

L’uso di utilizzare la medesima candela sia per Tishà Be’Av che per Channukkà, ci trasmette quindi un messaggio di speranza, un messaggio di inversione della storia, ponendo la distruzione del Tempio come elemento iniziale e l’accensione della Channukkià, riflesso della Menorà che illuminava il Tempio come elemento successivo e conclusivo. Ma tutto ciò passa attraverso un processo che alla luce di questa stessa candela deve essere compiuto, un processo di ricerca interiore!