di Liliana Picciotto
Per anni si è presentata la resistenza al fascismo e al nazismo come un movimento di partigiani in armi, eroici combattenti asserragliati sulle montagne, pronti ad attaccare il nemico. È una concezione romantica del partigianato che si va impallidendo man mano che si moltiplicano studi scientifici sui fenomeni sociali, economici, politici legati alla resistenza. Oggi, si tende, giustamente, a inglobare nel fenomeno resistenza anche la popolazione civile che l’appoggiò, materialmente o moralmente. Contadini che si videro bruciare i villaggi se considerati conniventi; civili che offrirono ripari ai soldati che avevano smesso la divisa per non combattere a fianco dei tedeschi e di Mussolini; popolazione ordinaria che si strinse nelle case per ospitare famiglie di ebrei; ospedali che ricoverarono finti malati per proteggerli; conventi che aprirono cancelli non solo agli sfollati e agli immiseriti dalla guerra, ma anche a ricercati di ogni tipo. Tutte queste tipologie di impegno possono, a giusto titolo, entrare nella concezione della resistenza.
Si sa che, sotto occupazione e regime della Repubblica Sociale, l’Italia che lavorava alla luce del sole e che conduceva una vita “normale” proteggeva una seconda Italia sotterranea, bisognosa di appoggio e protezione. In questa nuova visione di resistenza/resilienza/dissidenza civica, le donne godono di maggior considerazione anche storiografica, diventando il perno della mentalità dell’altruismo e della “pietas”, mentalità sconosciuta al fascismo. Donne ebree hanno fatto parte di questo contesto, mentre molte altre hanno partecipato al vero e proprio progetto politico della resistenza, militando in uno dei partiti che faceva parte del Comitato di Liberazione Nazionale (CLN).
Le notizie che seguono sono tratte da una prima ricognizione sul contributo degli ebrei all’antifascismo e alla resistenza italiana, che costituirà, nei prossimi anni, uno dei principali progetti di ricerca della Fondazione CDEC (Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea), guidato da me stessa.
Donne ebree si adoperarono nell’opera del soccorso agli ebrei profughi, prima ancora del precipitare degli eventi dopo l’8 settembre del 1943 e continuarono poi la loro opera anche in mezzo ai pericoli mortali determinati dalla politica antiebraica radicale degli anni successivi. Tra di esse, citiamo la fiorentina Matilde Cassin (nella foto) che lavorò per la Delasem (Delegazione Assistenza Emigranti) assieme a Raffaele Cantoni e che, nell’ottobre del 1943 entrò a far parte del comitato di soccorso ebraico-cristiano guidato dal rabbino Nathan Cassuto. Girando come una trottola per Firenze portando generi di prima necessità e organizzando rifugi, rischiò più volte di essere arrestata, riuscendo sempre a sfuggire ai suoi inseguitori.
Dello stesso comitato facevano parte le sorelle Wanda e Luciana Lascar, di 20 e 18 anni, purtroppo arrestate assieme a rav Cassuto e mai più tornate da Auschwitz. La moglie di Cassuto, Anna Di Gioacchino, può essere annoverata tra le coraggiose donne ebree del Novecento, così come sua sorella Hulda. Anna fu arrestata lasciando, disperatamente, i suoi figli a Firenze. Scampata fortunosamente da Auschwitz, fu uccisa pochi anni dopo il suo ritorno, quando, emigrata in Israele e arruolata nel convoglio medico che portava uomini e aiuti all’ospedale Hadassa, cadde vittima di un assalto arabo e morì dentro al suo vagone crivellato di colpi. Hulda sposata con Saul Campagnano, anch’egli arrestato con il comitato, rimasta sola a Firenze nell’autunno del 1943, prese su di sè la cura di sei bambini, quattro di Anna e due suoi, riuscendone, con coraggio e fermezza, a salvarne 5.
La giovane Lea Loewenwith, di 14 anni, condusse la sua famiglia composta da papà, mamma e 5 fratellini attraverso l’Europa sconvolta dalla guerra, mettendo in campo il suo fiuto e la sua intelligenza. Partì in treno da Anversa, raggiunse tra mille pericoli prima Parigi, poi il sud della Francia in mano italiana; da Nizza, fu internata a Saint Martin de Vésubie, un villaggio alle pendici delle Alpi Marittime. Il 9 settembre 1943, per sfuggire ai tedeschi che dilagavano in quel territorio, si mise in marcia con la famiglia verso le montagne per raggiungere a piedi l’Italia. Passò il confine a 2800 metri di altezza ridiscendendo verso la Val di Gesso dove, purtroppo già i tedeschi erano giunti. La ragazza costituì il sostegno e la forza dei genitori e dei fratellini cui non consentì mai di consegnarsi alle autorità, stanchi ed affranti come erano. Riuscì a raggiungere Firenze, a scampare con uno stratagemma ad una retata, poi a raggiungere Roma per mettersi al servizio del comitato di soccorso romano di Settimio Sorani e Padre Maria Benedetto. Solo ad ascoltare la sua straordinaria storia di salvezza, non si può non rimanere stupefatti.
Non mancarono donne entrate a far parte del vero e proprio movimento di resistenza, politicamente organizzato. Fecero soprattutto parte del servizio informazioni della resistenza e furono fondamentali nel trasporto di stampa clandestina e volantini antifascisti. Anna Maria Levi, sorella di Primo, era nelle fila del Partito d’Azione; a Torino, dormiva ogni notte in una casa diversa e possedeva ben tre carte di identità false intestaste a tre persone diverse. Ada Della Torre, era anch’essa militante nel Partito d’Azione e portaordini tra le formazioni piemontesi e quelle Lombarde. Lia Corinaldi, era nelle fila del Partito Comunista, dopo aver insegnato alla scuola ebraica, fece parte del comitato di assistenza organizzato da Raffaele Jona, distribuendo aiuti finanziari e notizie utili alla sopravvivenza agli ebrei clandestini a Torino e nel circondario.
Matilde Bassani, da maestra alla scuola ebraica di Ferrara, si trasformò in vera partigiana nelle file del Partito socialista, distribuendo giornali e opuscoli di propaganda e partecipando alla liberazione di Firenze. A Torino, Consolina Segre Montagnana educò i suoi otto figli all’antifascismo, la sua casa era una fucina d’impegno politico, sua figlia Rita fu sposa di Palmito Togliatti, due dei suoi nipoti, Ugo Berga e Franco Montagnana, furono valorosi partigiani in Val di Susa. Anche Marisa Diena, assieme ai suoi fratelli, Franco (caduto) e Giorgio si unì alle Brigate Garibaldi nella zona di Cuneo. Wanda Maestro e Luciana Nissim furono compagne di Primo Levi nel primo nucleo di partigiani formatosi in Val d’Aosta. L’una non sopravvisse ad Auschwitz mentre la Nissim tornò. Rita Rosani (ma Rosenzweig) fu una delle rarissime donne a ricevere la medaglia d’oro della resistenza, morendo con l’arma in pugno nelle colline veronesi dove si era unita a un gruppo partigiano non politicizzato.