L’anno scorso il film di Dana Doron e Uriel Sinai, Numbered, fece molto parlare; affrontava una tematica molto sentita, specie in Israele: figli e nipoti di sopravvissuti di Auschwitz che si erano fatti tatuare sul braccio il numero che i nazisti avevano tatuato sul braccio dei loro genitori, dei loro nonni.
Per alcuni, come si vede nel film, è stata una scelta di solidarietà, per altri un modo per mantenere viva la memoria della storia della loro famiglia, segnata dsall’esperienza di Auschwitz. Per la regista, quei numeri, riprodotti sulle braccia delle seconde, terze generazioni di sopravvissuti, rappresentano in certo senso, un simbolo di vita, un modo per dire, “noi siamo qui”, nonostante tutto.
Il regista messicano Ariel Zylbersztejn aveva affrontato questo delicato tema già nel 2004 con un cortometraggio dal titolo Jai (Vita).
In largo anticipo su una tendenza venuta alla luce in Israele solo di recente, Zylberszstjn con Jai, poneva in particolare la questione del rapporto fra i sopravvissuti e i loro nipoti, non di rado ignari della storia.
Una storia che i sopravvissuti stessi, talvolta, hanno voluto tenere celata.
Così in Jai, si vede l’anziana Bube spiegare con molto dolcezza alla nipotina Ilana che i numeri tatuati sul suo braccio (che sommati danno 18), rappresentano il “numero della vita” in ebraico.
Ilana decide di tatuare sul suo braccio lo stesso numero della nonna.
Ma quando Dani, il fratellino di Ilana, spiega cosa realmente significhi quel numero, la prospettiva immediatamente cambia. E questa breve storia rivela un finale di straordinaria potenza emotiva ( e non solo).